Le
Reali Ferriere ed Officine di Mongiana |
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Capitolo 6 (6°) Case-operai e struttura urbana La
Fabbrica d'Armi con le altre opere attribuibili al Savino, ed insieme alla
chiesa ed al palazzo Morabito - famiglia che ebbe in appalto, per un certo
periodo, i trasporti del minerale da Pazzano alla fonderia - rappresenta la
parte “nobile” dell'architettura del paese, ma non certamente la più
interessante. Anzi, al di là del singolo episodio edilizio, ciò che
caratterizza fortemente l'immagine urbanistica del centro è la sua struttura
abitativa, formata dalle cellule-operai. Esse si sviluppano, a monte, lungo un
asse viario di circa 200 metri, dal dislivello altimetrico di circa 20 metri, a
valle, in un quadrilatero irregolare. Non
è possibile fare riferimento ad una cellula standard, quanto piuttosto ad una
tipologia standard, pur se continuamente tradita. Da
una prima analisi sul campo, si intuisce come l'architettura di Mongiana sia
essenzialmente un'“ architettura senza architetti” (22). L'intero
paese si è sviluppato in modo spontaneo, lungo i naturali assi di
comunicazione, sui declivi esistenti, ed intorno ai poli industriali. Esso
fu realizzato materialmente dai suoi abitanti-operai; soltanto alcuni corpi di
fabbrica furono disegnati da tecnici, in genere quelli destinati alle attività
produttive o alla residenza ufficiale. Tra
il 1771 ed il 1830, anni nei quali prese forma e Consistenza l'abitato, ondate
successive di terremoti sconvolsero molti centri calabresi, soprattutto nelle
aree limitrofe. Alcuni di essi furono ricostruiti completamente (23)
(Filadelfia, Francavilla, Angitola, Mileto; e più a sud, Palmi, Bianco,
Bagnara, ecc.) secondo un tracciato ortogonale e con l'osservanza di
accorgimenti costruttivi antisismici. Mongiana, invece, nonostante anch'essa
fosse stata colpita a più riprese da terremoti già nel suo periodo iniziale,
non si adeguò mai all'impianto ortogonale, ma ha proseguito la sua crescita
adottando un “principio” apparentemente disorganico, in realtà molto legato
alla conformazione altimetrica ed anche paesaggistica dei luoghi, tale da
renderla simile più ai vecchi centri montani delle Serre che non piuttosto ad
un villaggio “ricostruito” o, come nel suo caso, costruito dal nulla, in
breve tempo, ed a più rese. Mongiana
è stato un paese industriale costruito senza progettisti, quindi la sua storia
appartiene anche a quella delle architetture cosiddette “minori”, cioè
all'architettura spontanea. Quì non vi fu il monumentalismo paternalistico di
San Leucio (24)
né tanto meno l'illuminismo rigeneratore del Ledoux della Ville de
Chaux (25),
con il suo impianto
gerarchico ed il cuore emblematico nel luogo del comando. Mongiana fu costruita
da diverse generazioni di operai che non rinunciarono mai ad esprimersi
individualmente, adottando tecnologie e materiali della tradizione,
stratificando le diverse soluzioni che via via andavano preferendo. Per
i mongianesi, d'altro canto, la “casa” non rappresentò un problema
paragonabile a quello delle residenze operaie realizzate nell'ambito dell'industrialesimo
a capitale privato, dove vi fu una enorme speculazione sul suolo urbano e sulla
costruzione stessa dei “dormitori” per gli operai (26). La
conseguenza nota di questo ulteriore sfruttamento operato dal capitale sulla
classe operaia fu tremenda per i suoi risvolti sociali: degradazione dei
costumi, alienazione per la ghettizzazione in slums periferici,
esplosione di epidemie malariche. Non a caso alcuni filantropi inglesi andavano
ripetutamente chiedendo che le abitazioni dei lavoratori fossero sistemate e
portate perlomeno al livello delle nuove prigioni (27).
Né i tentativi demagogici operati dal 1830 in poi per razionalizzare la
questione abitativa operaia, soprattutto nei centri urbani, può considerarsi
un'esperienza felice per il ceto operaio. Queen Victoria Town di Richard
Pemberton (1854) in Nuova Zelanda (28)
e le precedenti Society for Improving the Conditions of Labouring
Classes del 1844 (29), o la Metropolitan
Association for Improving the Dwellings of the Industrious Classes del 1841 (30)
costituiscono alcuni tra gli esempi più noti di quel movimento
progressista-paternalistico che tentò di umanizzare le condizioni di vita
degli operai in un'ottica moralistico-religiosa, attraverso una pianificazione
della città ed una tipologia residenziale improntate a principi di
“ordine”, “semplicità” e “funzionalità”. Architetti come Henry
Roberts, Frédéric Le Play, ed altri tentarono con convinzione questa via,
fiduciosi nella loro opera di razionalizzazione operata dall'alto, conseguibile
applicando i dettami della “scienza”. Questi
esempi, pur se importanti per le indicazioni che hanno suggerito nello studio
posteriore delle cellule residenziali, hanno soprattutto valore per il loro
contenuto politico nella storia della città moderna, poiché in essi si
adottava e confermava la separazione delle classi, la segregazione della
popolazione operaia all'interno del tessuto urbano, e la totale estraneità di
esse alle decisioni pianificatorie e tipologiche che venivano invece loro imposte
con equivoco umanitarismo. Se
si tiene presente che la classe operaia era formata nell'ottocento ed ancora
fino agli inizi del novecento, soprattutto da una popolazione rurale
urbanizzatasi con rapidità, la quale perdeva violentemente la propria identità
culturale contadina ed ogni legame con la tradizione, è ben comprensibile
come essa potesse essere manipolata con relativa faciltà e costretta ad
adattarsi a schemi di vita a lei del tutto estranei, secondo una vera e propria
prassi colonizzatrice. Anche
Mongiana fu un paese di frontiera e, per molti versi, un terreno su cui si
confrontarono e sperimentarono le nuove condizioni portate dalla
industrializzazione e dalla urbanizzazione forzata: essa sorse in breve tempo
in una zona scarsamente abitata ed in una natura che all'epoca non era esagerato
definire selvaggia. Ai suoi costruttori fu però concesso, anche se in modo
inconsapevole, la grande opportunità di conciliare il vecchio ed il nuovo, e di
assimilare le esperienze dei paesi vicini, soprattutto di Serra San Bruno. Ciò
permise di amalgamare senza traumi eccessivi la nuova condizione operaia con
quella che la precedeva, e che aveva le sue radici nella vita agricola e
montanara. Per
quanto concerne la tradizione costruttiva, a Serra si lavorava splendidamente il
granito; gli scalpellini di quel centro hanno lasciato numerose testimonianze di
maestria esecutiva, riuscendo persino a soddisfare la gestualità barocca del
loro architetto-concittadino, lo Scaramuzzino, allievo del Vanvitelli, che nella
chiesa dell'Addolorata aveva voluto la facciata continuamente curva, come
accartocciata, in pietre di granito sagomato. Così anche a Mongiana si possono
trovare - pur se in tono minore - episodi in cui si è espresso un piacevole uso
del granito per portali, cornici di finestre, soglie e balconi. La
Mongiana fu infatti costruita, dopo la sua fase del legno, con il materiale
principe delle Serre, il granito grigio “in disfacimento”, facilmente
estraibile in superficie. L'uso del mattone proveniente dalle fornaci di Serra,
e qualche volta da quelle ioniche, è limitato ai casi edilizi più
rappresentativi, per l'alto costo di produzione. La calce, legante fondamentale
ed insostituibile per la tecnologia costruttiva dell'epoca, veniva estratta
nelle cave del vicino Monte Stella. La
Fabbrica d'Armi, la Fonderia, la Casa del Comandante, la chiesa, pur essendo in
parte costruite in blocchi irregolari di granito, avevano le facciate campite in
mattoni, che le nobilitavano e consentivano un gioco ornamentale di paraste,
archi e cornicioni. Gli
appaltatori che operarono a Mongiana furono quasi tutti serresi e ciò rafforza
i motivi dell'influenza esercitata dalla tradizione costruttiva di Serra su
Mongiana. Un
altro importante artigianato, praticato a Serra sin dai tempi delle ferriere
“itineranti”, era quello del ferro battuto. In epoca barocca, questo
artigianato ha lasciato pregevoli esempi di ringhiere e cancellate. Così
anche i balconi di Mongiana riprendono questa tradizione, con ringhiere ed opere
in ghisa variamente disegnate, in carattere ottocentesco, che contribuiscono a
differenziare le singole abitazioni e ad arricchire il loro disegno di
facciata. Ogni
cellula abitativa di Mongiana è dunque resa diversa dalle altre da piccole
varianti, anche se la struttura tipologica di tutte è simile: al piano terra,
il camerone col grande focolare, al livello interrato la legnaia, ed al piano
superiore le stanze da letto raccordate al livello inferiore da una ripida e
poco ingombrante scala in legno. Le unità abitative, di cui alcune di proprietà
dell'amministrazione furono abitate da operai specialisti e da funzionari;
quindi non costituivano lo standard operaio, anche se molte di esse erano state
costruite da ex filiati (31)
in luogo delle baracche in legno. Gli addetti con mansioni più modeste
erano alloggiati in stanzoni di legno adiacenti la fonderia, come anche i
pendolari che venivano dal circondario per il loro turno settimanale. Le case in
pietra, da quell'epoca ad oggi, non sono aumentate di molto, come si può
rilevare dal confronto tra la planimetria del 1856 e l'attuale. Visto dunque che
il loro numero era già considerevole nell'ottocento, e poiché non tutte erano
di proprietà dell'amministrazione, in alcune di esse dovevano certamente
abitare anche operai comuni che, a costo di sacrifici, erano riusciti a
realizzare qualche risparmio. La
mancanza di un impianto urbanistico “progettato” denota, per altri versi, il
“ritardo” capitalista entro cui crebbe e si sviluppò Mongiana, poiché mancò
appunto quella pianificazione dall'alto che contraddistinse la maggior parte
delle iniziative industriali coeve. Ciò portò però anche indubbi benefici e
vi fu così una gerarchizzazione meno spinta tra le sue parti. Il rapporto
operaio-fabbrica non fu codificato in termini spazialmente rigidi: mancò la
capacità di imporre un'istituzione tipica dell'organizzazione produttiva
ottocentesca, cioé la fabbrica-villaggio come universo avulso dal contesto
ambientale, chiuso in proprie regole, proiettato verso una effimera dimensione
“positiva”, tale da farla spesso assurgere a modello di nuova organizzazione
sociale derivata dalla razionalizzazione dei processi produttivi della fabbrica
stessa. Lo
stretto legame che Mongiana ha conservato con l'ambiente le ha consentito una
maggiore sopravvivenza, anche dopo la scomparsa della sua attività produttiva
e quindi della sua originaria ragione d'esistenza. Per molti aspetti la Mongiana
è atipica rispetto ai casi più noti dell'urbanizzazione industriale e sui
quali si è scritto ed insistito tanto. A Mongiana mancò lo slancio verso
concezioni totalizzanti tipo San Leucio o “Salines Royales”, o di quelle
posteriori come il “Grand Hornu” (1822), “Bois-du-Lac” (1838)
“Degorgeville” progettata dal Renard. Lo spirito che animò la ferriera
calabrese fu soprattutto quello dell'empirismo e del pragmatismo. La sua
architettura non ebbe la presunzione di voler riformare i costumi; si adattò
invece a quelli esistenti, cercando una mediazione senza rotture traumatiche. Tutto
ciò forse non fu frutto di una scelta soppesata interamente in termini
volontaristici e culturalmente chiara, quanto piuttosto determinata da quel
“ritardo” capitalistico cui si accennava, ed imputabile quindi al
paternalismo borbonico ed al suo lasciar correre, contrariamente al capitalismo
privato che esercitò un più stretto controllo ideologico e fisico
sull'ambiente. L'assenza di architetti, soprattutto nella prima fase della sua
storia, privò Mongiana di demiurghi. Ledoux, Renard, Saltaire ed altri
avevano tentato di conciliare gl'interessi del capitale con quelli della
classe operaia, immaginando organismi “morali” e ricorrendo al linguaggio
nobile del neoclassicismo, capace di superare, ma solo in astratto, ogni tipo di
contraddizione. Le fabbriche divennero edifici ricchi di simbologia, mezzi di
comunicazione ideologica, portatrici del nuovo messaggio di prosperità ed
ordine legati al nascente mito della macchina e dell'industria. Un analogo
messaggio, dalla seconda metà dell'ottocento, fu veicolato in modo più crudo e
volgare, da alcune fabbriche e dai villaggi operai “modello” come il
villaggio Crespi ad Adda o quello Leumann a Collegno, in cui vennero adoperati
sia il “neogotico” che segni “aristocratici” per nobilitare i luoghi
della produzione. L'architettura
di Mongiana è meno eclatante ed è più vicina a quella creata dalla anonima
moltitudine di medi e piccoli imprenditori che tra la fine del settecento e la
prima metà dell'ottocento hanno in silenzio fondato il reale tessuto
industriale dell'Europa, svolgendovi anche il ruolo di architetti e di inventori
di tipologie adeguate alle nuove esigenze. Costoro furono personaggi accentratori
al massimo, di mentalità tipicamente artigiana, e preferirono far da sé,
impegnandosi contemporaneamente ad inventare nuovi sistemi produttivi, nuove
macchine, e ad edificare secondo schemi semplici e funzionali. Non è un caso che a Mongiana venne introdotto lo “stile” neoclassico per la prima volta dal Savino, unico “ingegnere costruttore” della sua storia.
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