Le Reali Ferriere      

ed Officine di  Mongiana

 

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Introduzione

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Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Tavola Misure Regno delle Due Sicilie

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Real Decreto e Regolamento

Bibliografia

Bibliografia generale

Indice delle abbreviazioni

Indice delle note

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Capitolo 6  

(6°)

Case-operai e struttura urbana

La Fabbrica d'Armi con le altre opere attribuibili al Savino, ed insieme alla chiesa ed al palazzo Morabito - famiglia che ebbe in appalto, per un certo periodo, i trasporti del minerale da Pazzano alla fonderia - rappresenta la parte “nobile” dell'architettura del paese, ma non certamente la più interessante. Anzi, al di là del singolo episodio edilizio, ciò che caratterizza fortemente l'imma­gine urbanistica del centro è la sua struttura abitativa, formata dalle cellule-operai. Esse si sviluppano, a monte, lungo un asse viario di circa 200 metri, dal dislivello altimetrico di circa 20 metri, a valle, in un quadrilatero irregolare.

Non è possibile fare riferimento ad una cellula standard, quanto piuttosto ad una tipologia standard, pur se continuamente tradita.

Da una prima analisi sul campo, si intuisce come l'architettura di Mongiana sia essenzialmente un'“ architettura senza architetti” (22).

L'intero paese si è sviluppato in modo spontaneo, lungo i naturali assi di comunicazione, sui declivi esistenti, ed intorno ai poli industriali.

Esso fu realizzato materialmente dai suoi abitanti-operai; soltanto alcuni corpi di fabbrica furono disegnati da tecnici, in genere quelli destinati alle attività produttive o alla residenza ufficiale.

Tra il 1771 ed il 1830, anni nei quali prese forma e Consistenza l'abitato, ondate successive di terremoti sconvolsero molti centri calabresi, soprattutto nelle aree limitrofe. Alcuni di essi furono ricostruiti completamente (23) (Filadelfia, Francavilla, Angitola, Mi­leto; e più a sud, Palmi, Bianco, Bagnara, ecc.) secondo un trac­ciato ortogonale e con l'osservanza di accorgimenti costruttivi antisismici. Mongiana, invece, nonostante anch'essa fosse stata colpita a più riprese da terremoti già nel suo periodo iniziale, non si adeguò mai all'impianto ortogonale, ma ha proseguito la sua cre­scita adottando un “principio” apparentemente disorganico, in realtà molto legato alla conformazione altimetrica ed anche pae­saggistica dei luoghi, tale da renderla simile più ai vecchi centri montani delle Serre che non piuttosto ad un villaggio “ricostruito” o, come nel suo caso, costruito dal nulla, in breve tempo, ed a più

rese.

Mongiana è stato un paese industriale costruito senza progettisti, quindi la sua storia appartiene anche a quella delle architetture cosiddette “minori”, cioè all'architettura spontanea. Quì non vi fu il monumentalismo paternalistico di San Leucio (24) né tanto meno l'illuminismo rigeneratore del Ledoux della Ville de Chaux (25), con il suo impianto gerarchico ed il cuore emblematico nel luogo del comando. Mongiana fu costruita da diverse generazioni di operai che non rinunciarono mai ad esprimersi individualmente, adot­tando tecnologie e materiali della tradizione, stratificando le di­verse soluzioni che via via andavano preferendo.

Per i mongianesi, d'altro canto, la “casa” non rappresentò un problema paragonabile a quello delle residenze operaie realizzate nell'ambito dell'industrialesimo a capitale privato, dove vi fu una enorme speculazione sul suolo urbano e sulla costruzione stessa dei “dormitori” per gli operai (26).

La conseguenza nota di questo ulteriore sfruttamento operato dal capitale sulla classe operaia fu tremenda per i suoi risvolti sociali: degradazione dei costumi, alienazione per la ghettizzazione in slums periferici, esplosione di epidemie malariche. Non a caso alcuni filantropi inglesi andavano ripetutamente chiedendo che le abitazioni dei lavoratori fossero sistemate e portate perlomeno al livello delle nuove prigioni (27). Né i tentativi demagogici operati dal 1830 in poi per razionalizzare la questione abitativa operaia, so­prattutto nei centri urbani, può considerarsi un'esperienza felice per il ceto operaio. Queen Victoria Town di Richard Pemberton (1854) in Nuova Zelanda (28) e le precedenti Society for Improving the Conditions of Labouring Classes del 1844 (29), o la Metropolitan Association for Improving the Dwellings of the Industrious Classes del 1841 (30) costituiscono alcuni tra gli esempi più noti di quel mo­vimento progressista-paternalistico che tentò di umanizzare le con­dizioni di vita degli operai in un'ottica moralistico-religiosa, at­traverso una pianificazione della città ed una tipologia residen­ziale improntate a principi di “ordine”, “semplicità” e “funziona­lità”. Architetti come Henry Roberts, Frédéric Le Play, ed altri tentarono con convinzione questa via, fiduciosi nella loro opera di razionalizzazione operata dall'alto, conseguibile applicando i det­tami della “scienza”.

Questi esempi, pur se importanti per le indicazioni che hanno suggerito nello studio posteriore delle cellule residenziali, hanno soprattutto valore per il loro contenuto politico nella storia della città moderna, poiché in essi si adottava e confermava la se­parazione delle classi, la segregazione della popolazione operaia all'interno del tessuto urbano, e la totale estraneità di esse alle decisioni pianificatorie e tipologiche che venivano invece loro im­poste con equivoco umanitarismo.

Se si tiene presente che la classe operaia era formata nell'ot­tocento ed ancora fino agli inizi del novecento, soprattutto da una popolazione rurale urbanizzatasi con rapidità, la quale perdeva violentemente la propria identità culturale contadina ed ogni le­game con la tradizione, è ben comprensibile come essa potesse essere manipolata con relativa faciltà e costretta ad adattarsi a schemi di vita a lei del tutto estranei, secondo una vera e propria prassi colonizzatrice.

 

Anche Mongiana fu un paese di frontiera e, per molti versi, un terreno su cui si confrontarono e sperimentarono le nuove con­dizioni portate dalla industrializzazione e dalla urbanizzazione for­zata: essa sorse in breve tempo in una zona scarsamente abitata ed in una natura che all'epoca non era esagerato definire sel­vaggia. Ai suoi costruttori fu però concesso, anche se in modo inconsapevole, la grande opportunità di conciliare il vecchio ed il nuovo, e di assimilare le esperienze dei paesi vicini, soprattutto di Serra San Bruno. Ciò permise di amalgamare senza traumi ec­cessivi la nuova condizione operaia con quella che la precedeva, e che aveva le sue radici nella vita agricola e montanara.

Per quanto concerne la tradizione costruttiva, a Serra si lavorava splendidamente il granito; gli scalpellini di quel centro hanno lasciato numerose testimonianze di maestria esecutiva, riuscendo persino a soddisfare la gestualità barocca del loro architetto-concittadino, lo Scaramuzzino, allievo del Vanvitelli, che nella chiesa dell'Addolorata aveva voluto la facciata continuamente curva, co­me accartocciata, in pietre di granito sagomato. Così anche a Mongiana si possono trovare - pur se in tono minore - episodi in cui si è espresso un piacevole uso del granito per portali, cornici di finestre, soglie e balconi.

La Mongiana fu infatti costruita, dopo la sua fase del legno, con il materiale principe delle Serre, il granito grigio “in disfacimento”, facilmente estraibile in superficie. L'uso del mattone proveniente dalle fornaci di Serra, e qualche volta da quelle ioniche, è limitato ai casi edilizi più rappresentativi, per l'alto costo di produzione. La calce, legante fondamentale ed insostituibile per la tecnologia costruttiva dell'epoca, veniva estratta nelle cave del vicino Monte Stella.

La Fabbrica d'Armi, la Fonderia, la Casa del Comandante, la chiesa, pur essendo in parte costruite in blocchi irregolari di granito, avevano le facciate campite in mattoni, che le nobilitavano e consentivano un gioco ornamentale di paraste, archi e corni­cioni.

Gli appaltatori che operarono a Mongiana furono quasi tutti serresi e ciò rafforza i motivi dell'influenza esercitata dalla tradizione costruttiva di Serra su Mongiana.

 

Un altro importante artigianato, praticato a Serra sin dai tempi delle ferriere “itineranti”, era quello del ferro battuto. In epoca barocca, questo artigianato ha lasciato pregevoli esempi di rin­ghiere e cancellate. Così anche i balconi di Mongiana riprendono questa tradizione, con ringhiere ed opere in ghisa variamente disegnate, in carattere ottocentesco, che contribuiscono a diffe­renziare le singole abitazioni e ad arricchire il loro disegno di facciata.

Ogni cellula abitativa di Mongiana è dunque resa diversa dalle altre da piccole varianti, anche se la struttura tipologica di tutte è simile: al piano terra, il camerone col grande focolare, al livello interrato la legnaia, ed al piano superiore le stanze da letto rac­cordate al livello inferiore da una ripida e poco ingombrante scala in legno. Le unità abitative, di cui alcune di proprietà dell'am­ministrazione furono abitate da operai specialisti e da funzionari; quindi non costituivano lo standard operaio, anche se molte di esse erano state costruite da ex filiati (31) in luogo delle baracche in legno. Gli addetti con mansioni più modeste erano alloggiati in stanzoni di legno adiacenti la fonderia, come anche i pendolari che venivano dal circondario per il loro turno settimanale. Le case in pietra, da quell'epoca ad oggi, non sono aumentate di molto, come si può rilevare dal confronto tra la planimetria del 1856 e l'attuale. Visto dunque che il loro numero era già considerevole nell'ottocento, e poiché non tutte erano di proprietà dell'ammi­nistrazione, in alcune di esse dovevano certamente abitare anche operai comuni che, a costo di sacrifici, erano riusciti a realizzare qualche risparmio.

La mancanza di un impianto urbanistico “progettato” denota, per altri versi, il “ritardo” capitalista entro cui crebbe e si sviluppò Mongiana, poiché mancò appunto quella pianificazione dall'alto che contraddistinse la maggior parte delle iniziative industriali coeve. Ciò portò però anche indubbi benefici e vi fu così una gerarchizzazione meno spinta tra le sue parti. Il rapporto operaio-­fabbrica non fu codificato in termini spazialmente rigidi: mancò la capacità di imporre un'istituzione tipica dell'organizzazione pro­duttiva ottocentesca, cioé la fabbrica-villaggio come universo avulso dal contesto ambientale, chiuso in proprie regole, proiet­tato verso una effimera dimensione “positiva”, tale da farla spesso assurgere a modello di nuova organizzazione sociale derivata dalla razionalizzazione dei processi produttivi della fabbrica stessa.

Lo stretto legame che Mongiana ha conservato con l'ambiente le ha consentito una maggiore sopravvivenza, anche dopo la scom­parsa della sua attività produttiva e quindi della sua originaria ragione d'esistenza. Per molti aspetti la Mongiana è atipica ri­spetto ai casi più noti dell'urbanizzazione industriale e sui quali si è scritto ed insistito tanto. A Mongiana mancò lo slancio verso concezioni totalizzanti tipo San Leucio o “Salines Royales”, o di quelle posteriori come il “Grand Hornu” (1822), “Bois-du-Lac” (1838) “Degorgeville” progettata dal Renard. Lo spirito che animò la ferriera calabrese fu soprattutto quello dell'empirismo e del pragmatismo. La sua architettura non ebbe la presunzione di voler riformare i costumi; si adattò invece a quelli esistenti, cercando una mediazione senza rotture traumatiche.

Tutto ciò forse non fu frutto di una scelta soppesata interamente in termini volontaristici e culturalmente chiara, quanto piuttosto determinata da quel “ritardo” capitalistico cui si accennava, ed imputabile quindi al paternalismo borbonico ed al suo lasciar correre, contrariamente al capitalismo privato che esercitò un più stretto controllo ideologico e fisico sull'ambiente. L'assenza di architetti, soprattutto nella prima fase della sua storia, privò Mon­giana di demiurghi. Ledoux, Renard, Saltaire ed altri avevano ten­tato di conciliare gl'interessi del capitale con quelli della classe operaia, immaginando organismi “morali” e ricorrendo al linguag­gio nobile del neoclassicismo, capace di superare, ma solo in astratto, ogni tipo di contraddizione. Le fabbriche divennero edifici ricchi di simbologia, mezzi di comunicazione ideologica, portatrici del nuovo messaggio di prosperità ed ordine legati al nascente mito della macchina e dell'industria. Un analogo messaggio, dalla seconda metà dell'ottocento, fu veicolato in modo più crudo e volgare, da alcune fabbriche e dai villaggi operai “modello” come il villaggio Crespi ad Adda o quello Leumann a Collegno, in cui vennero adoperati sia il “neogotico” che segni “aristocratici” per nobilitare i luoghi della produzione.

L'architettura di Mongiana è meno eclatante ed è più vicina a quella creata dalla anonima moltitudine di medi e piccoli impren­ditori che tra la fine del settecento e la prima metà dell'ottocento hanno in silenzio fondato il reale tessuto industriale dell'Europa, svolgendovi anche il ruolo di architetti e di inventori di tipologie adeguate alle nuove esigenze. Costoro furono personaggi accen­tratori al massimo, di mentalità tipicamente artigiana, e prefe­rirono far da sé, impegnandosi contemporaneamente ad inventare nuovi sistemi produttivi, nuove macchine, e ad edificare secondo schemi semplici e funzionali.

Non è un caso che a Mongiana venne introdotto lo “stile” neo­classico per la prima volta dal Savino, unico “ingegnere costrut­tore” della sua storia.

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