Le
Reali Ferriere ed Officine di Mongiana |
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Prefazione Qualcuno,
anni fa, parlò di un “ritorno dell'acciaio in Calabria”. L'affermazione
sorprese perché gli stessi Calabresi avevano perduto il ricordo storico di
questa tessera del loro sistema produttivo pre-unitario. La vecchia generazione
ricorda bensì la fiorente industria della seta, ma pochi, e soltanto
nell'area interessata, le miniere e le fonderie di ferro. E la novità recò
tanto più meraviglia per il fatto che non si richiamavano memorie di
antichissime ferriere, quali erano frequenti in secoli di produzione disseminata
e artigianale, ma miniere e altiforni, cioè un sistema di fabbrica e una
produzione specializzata. Quel
richiamo, giornalisticamente efficace,
era invero fuori misura se posto a raffronto con la rivoluzione
tecnologica dei tempi nostri e con la conseguente domanda di produzioni
sofisticate. Ma poneva un problema storico e spingeva a riflettere sull'eclissi,
dopo l'unificazione nazionale, di un apparato produttivo calabrese, né ampio né
sano, e tuttavia per quei tempi notevole e incidente. Suonava, da un lato,
come un lamento e, dall'altro, come una sfida. E ciò valeva soprattutto come
rivendicazione di attitudini tecniche e di fattori socialmente aggreganti spesso
negati dagli odierni “viaggiatori”. Discorrendo
di Gioia Tauro, si richiamava Mongiana e il complesso di attività intercorrenti
tra il suo stabilimento metallurgico e l'area circostante, dal cuore dell'aspra
montagna appenninica ai centri vicini (Serra, Pazzano, Stilo, Bivongi) e
agli approdi jonici e tirrenici (Squillace, Monasterace, Siderno, Pizzo e
Nicotera). Mongiana!
Un paese ora spopolato, un tempo luogo fervido di molteplici attività.
Nemmeno allora la condizione dell'uomo era lieta e senza drammi. La fatica era
dura, i fattori ambientali pesavano su tecnici, maestranze, minuscoli operatori
che dalla ferriera traevano lavoro e sostentamento. Ma la vita, che del resto
era molto dura altrove, anche fuori dalla Calabria e dal Regno borbonico,
pulsava in molte direzioni, sicché dalla ferriera si irradiavano stimoli
economici, sociali e tecnici e, com'era naturale, impulsi politici e culturali.
Lo “statino” degli addetti alla ferriera nel marzo del 1861 dà 762 unità:
250 “carbonieri”, 90 "minatori", 100 "armieri", 110
"mulattieri" e "bovari"; e con essi tecnici e operai
specializzati, dai “capi officina” ai “macchinisti” ai “forgiari” ai
“limatori” agli “accieri” ai “fornaceri” agli “staffatori” ai
“ribattitori” ai “raffinatori” ai “magliettieri”: un'occupazione
di buona dimensione per quei tempi e talora di ottima capacità tecnica alla
quale deve sommarsi lo stuolo di artigiani, di piccoli commercianti, di manovali
generici che vi era collegato nei mesi di più forte produzione. Le
fonti dicono che la miseria imperversava, che le categorie più numerose e meno
qualificate protestavano ripetutamente per i bassi salari e per le dure
condizioni di lavoro, e che lo scontento attingeva impiegati e tecnici. Non ci
sono ragioni per dubitarne, e certo lo sfruttamento era grande. Ma tutto ciò
deve essere rapportato ai tempi e alla condizione operaia prevalente in
industrie dello stesso tipo operanti anche fuori del Mezzogiorno. E in ogni
caso, non deve essere sottaciuto il fatto che, nel cuore dell'appennino calabrese,
funzionava la più importante industria metallurgica borbonica, e per di più
legata a materie prime locali. E che fosse statale, come quella meccanica, più
robusta, di Pietrarsa, è certo un fattore da considerare ove se ne intendano
esaminare i costi e la produttività; e in questo caso si dovrà comunque
inserirla nel complesso sistema economico borbonico e, in particolare, nel
cosiddetto “protezionismo ferriero”. Da questo lato tuttavia l'analisi è
tutt'altro che agevole e nessuno ha finora tentato di intraprenderla, così come
ha fatto Giorgio Mori nel suo splendido lavoro sull'industria del ferro in
Toscana (1). Ma
quando, perché e come nacque lo stabilimento di Mongiana? E
la domanda principale, cui fa seguito, contestualmente, l'altra: quando, perché,
come morì un'industria di quella dimensione? Una tradizione “ferriera”
esisteva anche in Calabria e se ne parla in memorie antiche come di attività
precedenti alla venuta dei Saraceni. Tommaso Campanella ricorda uno stabilimento
della sua Stilo, e il suo riferimento, e i molti altri che si ricavano da
descrizioni, memorie e documenti di archivio, confermano che il territorio
attorno a Stilo costituiva la più ricca zona mineraria del Regno di Napoli e
che in esso furono attive, in secoli diversi, numerose ferriere. Si può
ricordare, ad esempio, che alcune di esse (a Stilo e in zone non distanti, come
Spadola) furono cedute da Carlo V a Cesare Fieramosca; che, nei primi due
decenni del '600, esse avevano aumentato la produzione rispetto al secolo
precedente, toccando i 1200 quintali nel 1618 con lavorazione di ferramenti per
la marina e ferri speciali per usi civili; e che, nei primi decenni del '700,
nel periodo austriaco, quel governo imperiale mostrò molto impegno alla loro
ripresa (2). Queste
ferriere non ebbero tutte una continuità produttiva. A metà '700 si ebbe un
primo spostamento in zone più vicine alla città, nel cuore del bosco demaniale
e la costruzione di una nuova ferriera lungo il corso del fiume Assi; sicché il
precedente gruppo fu chiamato le “Ferriere Vecchie”, le quali corrispondono
al complesso della Ferdinandea costituito dopo quello di Mongiana. Tali
spostamenti possono essere spiegati soprattutto con la progressiva riduzione dell'area
boschiva, attesa la grande quantità di combustibile richiesto dalla tipologia
produttiva; e fu, in sostanza, per questo motivo che il loro amministratore,
Massimiliano Conty, propose al governo il progetto di una nuova ferriera (3).
La località prescelta era detta, appunto, Mongiana, posta nel cuore della
montagna, a 5 miglia da Serra S. Bruno, in mezzo alla selva di proprietà del
principe di Roccella, feudatario di Fabrizia. Nasceva
così un vero e proprio “distretto siderurgico” Calabrese, comprendente
Mongiana e Ferdinandea; e nel settore privato, la ferriera di Razzona
(Cardinale) costruita dai Filangieri col metodo “alla catalana” e capace,
secondo il Grimaldi, di una produzione di circa 2.500 cantaia l'anno (4). Oltre
che sui boschi e i molti corsi d'acqua, quel sistema metallurgico statale si
fondava sui minerali di ferro della miniera di Pazzano. Rispetto alle ferriere
antiche, tutte ubicate a poca distanza da questa miniera, il processo di concentrazione
si attuava in località più lontane, il che, mentre aumentava la disponibilità
delle risorse carbonifere e facilitava il trasporto dei prodotti sulla via
carrettiera che, lungo l'Angitola, portava a Pizzo, rendeva più arduo il
rifornimento dei minerali da Pazzano alla Ferdinandea e a Mongiana, distanti
rispettivamente 18 e 29 chilometri da percorrere su strade appena abbozzate.
Benché sfruttata con procedimenti poco evoluti, quella miniera impegnava
mediamente 140 unità, tra adulti e bambini; e in certi anni, come tra il 1803 e
i1 1854, si estraevano 14.000 quintali di minerali a servizio di un solo
altoforno attivo 5-6 mesi l'anno o, come dopo il 1854, 50.000 quintali annui per
l'alimentazione di 3 altoforni (5). Il
complesso di Ferdinandea comprendeva un altiforno attivato, edifici per
alloggio, magazzini, officine, la segheria, la chiesa. Beneficiava, come si è
detto, della vicinanza alla miniera di Pazzano, ma incontrava difficoltà nella
quantità e nell'uso delle risorse idriche. La potenza idraulica, molto alta
nell'inverno, si abbassava drasticamente in estate, sicché nei mesi di
maggiore siccità si riusciva ad attivare un solo fuoco di affinazione. Mongiana,
a parte la distanza da Pazzano, fruiva di migliore opportunità ed era cresciuto
via via fino a qualificarsi come un centro metallurgico completo.
All'altoforno S. Barbara si erano aggiunti a metà Ottocento il S. Ferdinando e
il S. Francesco, costruiti sul tipo di Thomas e Laurent; e su un fronte di due
chilometri e mezzo, lungo il corso dei fiumi Ninfo ed Alaro, erano ubicate le
varie officine. La
struttura di quel polo siderurgico è descritta in varie memorie della prima metà
dell'800 sebbene con giudizi diversi sulla sua capacità produttiva. Luigi
Grimaldi ne offre una sommaria idea nei già ricordati “Studi statistici”.
Più recentemente documenti importanti sono stati utilizzati dal Caldora e dal
Petrocchi, rispettivamente per il decennio napoleonico e per l'ultimo periodo
borbonico. Riunendo varie notizie, il Petrocchi così riassume lo stato dello
stabilimento di Mongiana dal 1848 al 1859. Mongiana contava “due altiforni
per la produzione della ghisa, sei raffinerie, due fornelli Wilkinson ed altre
officine minori. Era diretto da un tenente colonnello di artiglieria, assistito
da un consiglio di amministrazione composto di ufficiali della medesima arma.
Oltre agli ufficiali e agli impiegati dello Stato, occupava 280 carbonieri, 100
mulattieri e 100 artefici e manuali. Dal 25 novembre a tutto marzo era in
attività un solo altoforno che produceva 40 cantaia di ghisa al giorno cioè
5000 cantaia per tutto il periodo di lavoro; si ottenevano inoltre 2.700 cantaia
di ferro. I materiali venivano impiegati per gli usi della guerra e marina... si
forn[ivano] pezzi per ferrovia... si costruivano, tra l'altro, “metraglie”
di ferro fuso, ferro maglio, ghisa in lingotti, lastre per moschettoni, palle
e bombe” (6). La Mongiana dunque, continuando una
lunga tradizione e utilizzando materie prime ed esperienze locali, rispondeva ad
esigenze del governo specie per le produzioni dell'esercito e nasceva in una
fase politica riformista fondata sull'intervento statale. Negli ultimi due
decenni del '700 e nei primi dell'800 gli interventi del governo si susseguirono
sia nel settore più propriamente amministrativo e di gestione (e in questo
senso si pose già allora il problema della direzione militare), sia nel settore
tecnico (7). Lo
sviluppo regolare degli impianti e delle varie fasi di lavorazione incontrava
forti ostacoli. Esso richiedeva cospicui investimenti e un'amministrazione
oculata; viceversa, i vari documenti che si conoscono mostrano che difettavano
gli uni e l'altra e che i progressi si limitavano a correzioni marginali. Gli
amministratori, a parte le loro stesse capacità personali, trovavano forti
difficoltà anche nel reclutamento delle maestranze: i bassi salari e le
condizioni di lavoro durissime e altamente nocive, così nella miniera come
nelle fasi di fusione, non incoraggiavano l'offerta e ponevano seri problemi al
mantenimento del ciclo produttivo. Parlando appunto delle condizioni di lavoro
degli addetti alla fusione, così scriveva il Galanti alla fine del '700:
“alla Mongiana, presso la Serra sono le fucine per purgare il ferro, che si
cava nelle vicinanze di Stilo. Le persone che sono impiegate in queste fucine
ordinariamente non oltrepassano i 40 anni della loro vita, o perdono gli
occhi” (8). Un
notevole miglioramento si registrò invece nel “decennio napoleonico”. Le
condizioni politico-militari di quell'epoca, tali da spingere la domanda, e il
generale miglioramento del modello amministrativo introdotto dal potere francese
e dalla classe dirigente ad esso legato, impressero alla Mongiana novità
importanti. La direzione fu assunta dal Ministero di Guerra e Marina, tagliando
almeno il nodo dei ricorrenti ed aspri contrasti tra civili e militari
napoletani, e si diede mano a innovazioni tecnico-produttive e a misure di
sostegno della condizione operaia. Su questo ultimo aspetto, così scrive il
Caldora: “Gli amministratori napoleonici... giunsero ad un adeguamento delle
paghe, ottennero per gli operai un medico, un farmacista, un giudice di pace,
l'esenzione della leva militare e pensarono persino di istituire una Cassa
degli Operai, con la trattenuta di un grano a ducato, per l'assistenza agli
invalidi, ai vecchi, alle vedove, agli orfani e per i maritaggi” (9).
La produzione aumentò progressivamente: dalle
3.297 cantaia del 1808 si giunse alle 10.065 cantaia del 1812, cosi divise:
3.885 cantaia di “proiettili pieni e vuoti”; 3.900 “cantaia di pani di
zavorra”; 152 cantaia di “utensili per uso dello stabilimento”; 1.091
cantaia di “ghisa”; 1.035 cantaia di “granaglia” (10).
Il preventivo della produzione per il 1814 era ancora più alto: ghisa cantaia
16.000; ferro battuto 3.000; mitraglia di ferro battuto 1.000; aste diverse a palanchetti
100; piombo 700; proiettili pieni 5.333; proiettili vuoti 5.333; granaglia
1.334 (11). Non si tratta di un consuntivo, e
si sa che quei livelli non furono raggiunti. Ma é indubbio che, già in quella
fase, erano stati posti i fattori essenziali del passaggio da una tipologia
produttiva più o meno arcaica a quella propriamente industriale. Questo non
significava di per sé che la Mongiana avesse i caratteri di un complesso
siderurgico autonomo, capace, in diverse condizioni politiche, di lavorare per
un mercato più ampio. Mostrava però che era possibile una conduzione valida
anche sul terreno della professionalità delle maestranze, e una sua collocazione
non parassitaria nell'economia meridionale, priva, com'è noto, di altre valide
alternative interne in quel comparto. La
fine della decennale parentesi murattiana e il lungo periodo d'inerzia seguito
alla restaurazione borbonica, durato almeno fino al 1830, crearono tuttavia una
profonda stasi, solo episodicamente interrotta da isolati tentativi innovativi
(ad esempio, la costruzione di una grande fabbrica “per tirare ferri e lamine
tra cilindri”) (12). E se, da un lato, l'avvento
di Ferdinando II e l'inizio di una fase dominata dalI'“industrialismo
nazionale” segnò una ripresa anche per Mongiana, dall'altro lato la linea
generale protezionistica, che subordinava lo stabilimento alla produzione
militare, impose vincoli fortemente negativi rispetto al mercato e ne soffocò,
in sostanza, le potenzialità effettive. Nei
trenta anni precedenti l'unificazione le attenzioni per il complesso siderurgico
calabrese non mancarono. Furono bensì episodici, ma tra quegli interventi ve ne
erano di conducenti allo scopo. Ad esempio, la costruzione del tratto di strada
Angitola-Serra S. Bruno, completato nel 1849 e del tratto successivo da Serra a
Pazzano, ordinato nel '52, in modo da poter fruire di un'indispensabile
infrastruttura interna, tra la miniera e lo stabilimento, e esterna, fino a
Pizzo, per il più rapido trasporto dei prodotti. E ancora la costruzione di due
nuove ferriere, in una delle quali furono inserite i due fornelli “alla
Wilkinson”, l'ampliamento delle fonderie e l'introduzione di una moderna
macchina a vapore di 50 HP importata dall'Inghilterra. Sul piano della potenzialità
produttiva, alla vigilia dell'unificazione, il complesso comprendente ormai tre
altiforni, capaci di una produzione globale giornaliera di 120 cantaia, avrebbe
potuto dare 24.000 cantaia di ghisa all'anno, coprire cioè una quota rilevante
del consumo interno. Ma la sua amministrazione e organizzazione e, ancora più,
la sua collocazione nel sistema borbonico, lo tenevano molto lontano da quei
traguardi; e perciò si presentava come un polo deficitario o comunque
strettamente dipendente dalle commesse statali (13).
Non
è qui il luogo per riconsiderare la politica economica borbonica e, nel
contesto, la dura polemica tra liberisti e protezionisti che ne accompagnò lo
sviluppo per molti decenni preunificazione. Si deve soltanto ricordare che il
problema del ferro e del protezionismo che vincolava il settore fu al centro
di quel dibattito, in un periodo in cui questi prodotti potevano essere
importati in grandi quantità e di buona e ottima qualità (come di fatti
avveniva, malgrado l'alta tariffa) (14) .
Mongiana occupava un buon posto in quelle discussioni perché si trattava
di industria statale e i liberisti ne contestavano l'efficienza e la validità
economica rispetto sia agli impegni finanziari dello Stato sia ai forti danni imposti
al consumatore. Esisteva tuttavia un parallelo interesse dei produttori
privati garantiti dalla tariffa protezionistica e tra essi, in primo luogo, il
principe di Satriano, Filangieri, proprietario della ferriera calabrese di
Cardinale (15). In
quel contrasto, relativamente alla Mongiana, si discusse anche della qualità
del prodotto, per taluni molto scadente, per altri di alto livello. Facendo la
necessaria tara ai giudizi, si può dire che i prodotti di Mongiana, non tutti
portati al possibile sviluppo e perfezionamento, erano mediamente buoni e che,
comunque, non stava in quel punto il pomo della discordia. I pareri ufficiali,
espressi da uomini come Cagnazzi, Durini e Cantarelli erano ovviamente più
lusinghieri. In una relazione dell'istituto d'incoraggiamento si legge che
“la ghisa di prima fusione è di tal pregio da non temere il confronto con
quella di Bofort, quanto il ferro malleabile tirato a trafila, di diversa
dimensione, tondo e rettangolare, e di cui se n'é veduta ed accuratamente
osservata la spezzatura a freddo; il quale è di ottima qualità: e
medesimamente dovete dire delle banderelle e lamine stagnate a foglie. Inoltre
si voglion bellissimi i saggi dell'acciaio di cementazione, che nulla lasciano
a desiderare (16). È probabile che tali giudizi
siano tratti da analoghe informazioni provenienti dai responsabili politici ed
economici catanzaresi, i quali a loro volta lavoravano su dati offerti dai
dirigenti dello stabilimento. Ma in questa materia, allora come oggi, occorre
molta cautela. Se vanno dunque lette criticamente tutte queste relazioni
ufficiali, lo stesso metro è bene usare nei confronti dei polemisti come il
Rotondo e anche delle relazioni tecniche di compagnie straniere, fortemente
interessate al mercato napoletano per i loro prodotti. L'altro
tema discusso riguardava i costi di produzione che erano certo alti, anche in
dipendenza del tipo di localizzazione e di amministrazione. Nel periodo dopo
il 1815 fino al 1860 si scaricò sullo stabilimento la doppia forbice delle
scelte del potere centrale: se, per un verso, il governo lo tenne in piedi per
le sue finalità (e anche per considerazioni politico-sociali), per l'altro non
ne fece che un'appendice, specie dopo la costruzione delle officine di Pietrarsa,
per la parte relativa alla lavorazione del ferro. Tutto ciò aggravò, anziché
correggere, i difetti gestionali, pur se, come si è detto, nell'ultimo
venticinquennio borbonico si pervenne a taluni interventi di sostegno
infrastrutturale e di ammodernamento tecnico. Così, all'indomani dell'Unità,
la differenza del prezzo per quintale tra la ghisa da “affinare” di Toscana
(11,50) e di Lombardia (10-12) e la corrispondente di Mongiana (17,50) era
rimarchevole (quello della Ferdinandea era più basso - 14 -, se non proprio
competitivo) (17). Ora,
alla luce di questa situazione di fatto e in riferimento alle condizioni nuove,
nazionali, prodotte dall'unificazione, trova una facile spiegazione la
rapidissima fine della Mongiana. La nuova politica economica liberista, la
decisione, nel suo ambito, di alienare l'apparato industriale pubblico, le
specifiche condizioni dello stabilimento calabrese sul terreno anche
ubicazionale: queste ed altre considerazioni conducono alla giustificazione
logica di un processo inarrestabile, il quale, peraltro, aveva in sé le cause
stesse della sua negativa conclusione (18). Forse la
questione è più complessa, comunque meno lineare. Il dato di fatto più
stringente, in questa sede, è il modo stesso della decapitazione, in realtà,
si potrebbe dire, sommaria. Trascorrerà un quindicennio dall'epopea unitaria
alla fine del capitolo siderurgico calabrese con la vendita dello stabilimento
all'ex deputato garibaldino Achille Fazzari (gli ultimi prodotti, 400.000 Kg. di
ghisa in pani e in rottami, erano stati venduti alla “Perseveranza” di
Piombino nel 1872) (19). Ma la morte era cominciata
appunto all'indomani dell'Unità. Un sistema protetto, che era nato ed era
vissuto all'ombra dello Stato, non poteva reggere la lotta di mercato. Perciò,
già nei primissimi anni unitari, senza o con pochissime commesse, la produzione
crollò alla media annua di 560 quintali. L'impatto fu dunque durissimo, al
limite della “ferocia”. Un capitale tecnico di esperienze fu cancellato di
colpo, sebbene sia rimasto per molto tempo ancora l'abilità professionale dei
“Serresi”; e si innescò un meccanismo conflittuale tra le povere
maestranze, la popolazione della zona e il potere centrale tanto aspro da produrre,
tra l'altro, il ferimento di un direttore più risoluto, inviato dal governo per
chiudere la partita (20). Certo, non mancarono
tentativi di soluzione diversa (ad esempio progettando di affidare lo
stabilimento - ormai restituito alla competenza del Ministero delle Finanze -
a privati che non comparivano perché non esistevano imprenditori disponibili ad
affrontare il rischio della ristrutturazione in quelle condizioni di mercato e
di domanda locale e, nel caso in cui qualche progetto fu avanzato, si trattava
probabilmente di fatti puramente speculativi). Oppure progettando piani diversi,
fondati sulla prosecuzione dell'intervento statale. Ma i primi urtavano contro
l'obiettivo ostacolo delle nuove condizioni di mercato e i secondi contro la
linea economica governativa. Peraltro tutte le carte parlano di una linea molto
rigida e soprattutto dell'assoluta assenza di una qualunque ipotesi di
riassetto e comunque di riconversione del patrimonio, in mezzi e uomini,
accumulati in quasi un secolo di attività e di esperienza. Posto
dunque sulla scala grande del nuovo Stato, così come si veniva articolando, il
problema presentava forti vincoli negativi per una soluzione di mantenimento ed
ammodernamento. Lo stesso problema, collocato su una scala regionale,
tuttavia parimenti legittima, assumeva ben altro significato. Nel conto,
beninteso, si deve porre la tradizione storica negativa, ma anche il
comportamento né limpido né socialmente attento del nuovo potere centrale. Del
resto, anche altre iniziative industriali meridionali, ben più sane e più
solide, se pure scamparono al primo grosso nodo dell'Unità raggiunta, talora
perirono nei posteriori nodi di un mercato via via più nazionale e più
stringente. Il
caso della Mongiana è, tra tutti, il più emblematico. Esso illumina le
debolezze interne dell'industria borbonica e, nel contempo, senza con questo
ridiscutere il giudizio storico complessivamente positivo sul fatto
dell'unificazione, ricorda comunque l'alto prezzo pagato da comunità che, pur
coinvolte in un sistema politico chiuso, avevano espresso, tra l'altro, buone
capacità sul terreno appunto del lavoro industriale. Gaetano
Cingari Hanno
collaborato ai grafici Michele
Apicella Domenico
Cafiero de Raho Fernando Pisacane
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