Le
Reali Ferriere ed Officine di Mongiana |
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Introduzione Il
desiderio di approfondire l'episodio “Mongiana” è scaturito dalla occasione
offertaci dal Comune di Mongiana nel 1974, con l'incarico di restauro della
“Fabbrica d'Armi”. Col tempo, è maturata in noi una presa di coscienza
per problematiche molto più complesse delle disciplinari inerenti il restauro
scientifico del complesso monumentale. Ci
si è resi via via conto di quanto lontana fosse oggi la memoria di quello
episodio persino tra gli stessi mongianesi, ignari del fatto che il degrado
economico attuale altro non è se non il prodotto antico della interruzione
forzata dell'attività metallurgica che quasi due secoli prima aveva generato il
paese. La
perdita d'identità, e quindi di storia, è oggi totale in una popolazione, tra
le prime in epoca industriale, costretta all'emigrazione. In una simile
situazione sociale, abbiamo ritenuto di dover utilizzare l'occasione del
restauro della Fabbrica d'Armi come strumento di stimolo per gli abitanti del
paese e per quanti si occupano di problemi del Mezzogiorno d'Italia. Il libro su
Mongiana è nato e si è sviluppato con la convinzione sempre più certa che
fosse doveroso rimuovere dall'oblìo una pagina così importante della storia
del lavoro meridionale. Durante
la stesura del testo ci siamo continuamente rammaricati di non potere e sapere
far rivivere personaggi ed eventi, di cui recuperavamo le labili tracce, come in
un affresco epico di un momento affascinante perché pionieristico. Per poter
avvalorare appieno la veridicità della materia esposta, ci siamo invece attenuti
ad uno schema tradizionale, scientifico, doverosamente confortato - ed
appesantito - da note ed appendici. Chi
ha interesse a sostenere l'immagine del meridionale “lavativo”, o ad
avvalorare le tesi sulla “napoletanità” basate su una “vocazione” canzonettistico-cinico-eduardiana
del popolo napoletano e meridionale in genere, è smentito, ancora una
volta, dalla storia di Mongiana. I napoletani “cantano” - storicamente - per
consolarsi, nei periodi di riflusso e di emarginazione, quando non hanno lavoro
e quando emigrano; e ciò è avvenuto, puntualmente, ogni qual volta essi
hanno servito interessi altrui. In
quelle situazioni in cui a loro è stata data l'occasione di produrre, hanno
offerto di sé un'altra immagine, di efficienza e inventiva. Più
in generale, questo tipo di ricerche che si occupa della riscoperta delle
prime fasi dell'industrialesimo rientra in quella “disciplina” recente, non
ancora del tutto codificata, che è l'archeologia industriale, nata in
Inghilterra, paese conservatore per eccellenza, dove si sono protette molte
testimonianze pionieristiche legate ai cicli di produzione derivate dall'uso
della macchina. Già da alcuni decenni il Council for British Archaeology si
preoccupa di rilevare, studiare, catalogare ed eventualmente restaurare questo
speciale patrimonio di fabbriche e macchine. In altre regioni d'Europa la
salvaguardia di queste testimonianze è stata a lungo compromessa da una carenza
di sensibilità nei confronti del femomeno industriale ai suoi albori. Salvo
casi di insediamenti industriali autoconservati, perché fossilizzati in
quanto abbandonati da molti decenni, in regioni lontane da traffici e da poli
di sviluppo, ogni traccia è andata irrimediabilmente perduta con velocità
maggiore di quella occorsa a cancellare le testimonianze di civiltà
archeologiche tradizionali. Là dove vi è stata continuità produttiva, i
vecchi edifici hanno subìto impotenti l'assalto della ruspa che ha aperto la
via alla realizzazione di nuove e più funzionali fabbriche, soprattutto in
quelle aree dove lo sviluppo primitivo non ha subìto il trauma dì
un'improvvisa caduta che spesso ne ha determinato, col tempo, anche la scomparsa
fisica del territorio. In
Italia, solo da pochi anni è di “attualità” ricercare in questo ambito. Un
campo d'indagine trascurato troppo a lungo si apre ora vergine al ricercatore
promettendogli emozioni che l'altra archeologia, la classica, riesce a far
assaporare con sempre maggiore difficoltà. Eppure “scoprire” quanto dista
dall'oggi appena alcuni decenni può apparire inspiegabile: ciò che si scopre
in realtà è già conosciuto, nè va riportato alla luce con scavi incerti. Ci
si può persino illudere di essere divenuti piccoli Evans alla scoperta di
inesplorate “tombe” industriali mentre ci si aggira ammirati ed increduli
tra ciminiere dirute, ruote idrauliche, presse, grandiosi ingranaggi dal disegno
antropomorfo, in fabbriche ormai spettralmente silenti. Questi
primi duecento anni di industrialesimo, nella esaltazione della logica del
profitto, hanno incessantemente divorato il proprio passato recente, senza mai
concedersi il tempo per una pausa di riflessione. La stessa era industriale,
fiera di sé, soprattutto ai suoi inizi, ha ripetutamente sbandierato la
propria presunta superiorità su ogni altra era, finendo relegata in una zona di
oblìo storico, al di fuori di ogni continuità con il passato, proiettata verso
visioni utopiche del futuro. Se
oggi vi è riflessione, essa non nasce da un ruolo nuovo dell'industria che
continua a fornire essenzialmente beni di consumo all'interno di un sistema di
profitti, nè tanto meno deriva da un interesse improvviso quanto
romanticheggiante verso momenti “spontanei” della storia, non ancora
“contaminati” dall'ufficialità della cultura, così come è avvenuto per
il “recupero” della tradizione popolare e folklorica. La
riflessione sulla nascita dell'industria si impone oggi come una necessità:
essa serve a dare risposte alla crisi del macchinismo e dell'industrialesimo
di rapina. Essa poi diviene una esigenza politica nel momento in cui, cadute
le illusioni del boom economico accarezzate fino alla metà degli anni
'60, ci si trova impreparati a fronteggiare la recessione, la crisi produttiva,
la guerra energetica, soprattutto in Italia, paese di trasformazione, dove
maggiore dovrebbe essere l'attenzione verso le risorse produttive. E
non è un caso che la terra di conquista dell'archeologia industriale italiana
sia il Sud. È quì che si giocherà gran parte del futuro sviluppo dell'Italia,
sempreché si riesca a riscattare la gente del Mezzogiorno con il reinserirla
in quella economia di tipo avanzato - comunque certamente non retrogrado - che
essa ha avuto in epoche nemmeno tanto lontane dall'oggi. Il
Sud è un'area particolarmente adatta al confronto tra passato e futuro
industriale: esso conserva notevoli testimonianze archeologiche della
industria. Il Nord ha perso la quasi totalità del proprio patrimonio
pionieristico: esso ha infatti conosciuto quella continuità produttiva che gli
ha permesso un tenore di vita così diverso da quello meridionale. Il
Sud fu decapitato senza eccessivi ripensamenti nel giro di pochi anni: dopo
l'Unità, l'importante patrimonio industriale del Regno delle Due Sicilie -
sminuito a torto - andò distrutto, e per la nuova nazione ciò ha poi
rappresentato un danno irreversibile. Gli sforzi dei Borboni volti ad edificare
un tessuto industriale forte e capace di reggere il confronto con i sistemi
liberali più spinti, fu vanificato da una politica unitaria ingorda e di parte,
che incentrò il suo obiettivo nella repentina privatizzazione dell'industria
per ottenere profitti massimi in tempo minore, con la conseguenza che si perse
ogni cautela nello sfruttamento delle risorse e si relegò il Sud a evocazione
agricola. Le
Ferriere ed Officine di Mongiana - episodio fino a pochi anni addietro noto solo
a pochi studiosi di cose calabresi - testimoniano un'altra esaltante impresa
industriale del Sud, che si affianca alle ormai note San Leucio, Torre
Annunziata, Castellamare di Stabia, Pietrarsa, ed a tante altre della
Campania, Calabria,
Sicilia e Puglia. Il
nostro lavoro vuole essere un primo contributo ad una materia che merita
certamente approfondimenti ulteriori. In precedenza alcuni studiosi hanno
sviluppato ricerche sulla Mongiana, anche se limitate a brevi periodi della sua
storia. Base di queste ricerche, e della nostra, è stato il carteggio
riordinato dal prof. L. Lume, consultato spesso in modo disorganico, fatta
eccezione per G. Cingari, che ha trattato della crisi determinatasi nel 1860 con
il passaggio degli stabilimenti all'Amministrazione piemontese (1). Il
nostro tentativo è stato quello di fornire un quadro più ampio della Mongiana,
dai suoi albori alla sua chiusura, non solo sul piano storico, ma tentando
l'analisi di alcuni tra i fattori a nostro avviso fondamentali in una vicenda di
questo tipo. Abbiamo cioè cercato di descrivere gli aspetti energetici e
tecnologici legati alla produzione, nonché quelli sociali ed architettonici che
ne sono derivati. Pur partendo - da architetti - da un'interesse prevalentemente
indirizzato verso le realizzazioni edilizie di questa impresa industriale,
abbiamo ritenuto opportuno posporre la descrizione e la analisi di questo
particolare patrimonio, facendo precedere ad essa una valutazione di quei
fattori storici che in definitiva l'hanno prodotta. Si è divisa la materia in
argomenti monografici tra loro connessi: partendo dall'ambiente e dal problema
energetico e delle materie prime, cioè dall'analisi dei boschi (carbone) ed
acque (forza motrice) e delle miniere (ferro ed altri minerali). Si è
affrontato poi l'aspetto inerente le trasformazioni subìte dall'ambiente,
quello connesso alla viabilità indotta dal complesso siderurgico,
e infine le tecnologie di produzione ed i prodotti,
con i problemi relativi alla condizione operaia. Su queste basi si è affrontata l'architettura, ritenendola solo uno dei punti d'arrivo - prodotto anch'essa - dell'intero processo produttivo. In tal senso ci pare corretta la posizione di alcuni teorici dell'archeologia industriale che marxianamente tendono a vedere il monumento industriale come qualcosa che ha prodotto, quale componente attiva della struttura economica, ma che, al tempo stesso, è il prodotto di un'ideologia che ne ha determinato le valenze architettoniche (2).
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