Le
Reali Ferriere ed Officine di Mongiana |
|
Capitolo 2 (b) Pubblicata
postuma sul Giornale Enciclopedico di Napoli, nel 1814, a firma di A. Savaresi,
il mineralogista che tra il 1798 e il 1806 profuse molte energie nella
riorganizzazione di Mongiana, compare la seguente nota scientifica: “Io ho
veduto che il ferro delle nostre ferriere tende molto all'acciajo, avendo esso
ordinariamente una tessitura non fibbrosa, ma più presto acinosa e minuta,
e talvolta grossa, quasi come il ferro agre; nel qual caso chiamato questo ferro
Vitriolo. E' questo il ferro più approvato da' bollatori: di maniera ché io mi
meraviglio molto, come i nostri maestri ferrari trovano il loro conto a
servirsene, i quali io sento dire, che preferiscono il ferro di queste ferriere
anche al ferro di Venezia e della Carniola. I bollatori stessi dicono, che se
venisse altronde un maestro a trattare alla forgia i nostri ferri, non avrebbe
quasi che farne, laddove i maestri di queste due province, avvezzati coi nostri
ferri, se ne trovano molto bene. Io
rifletteva, che potesse essere il carbone di castagno che usano, uno degli aiuti
per migliorare il nostro ferro sbarra alle loro forge; ma il fatto è, che nella
forgia, che abbiamo noi qui a Mongiana, non s'usa altro carbone che di faggio e
sempre la cosa va bene. E' dunque che essi hanno acquistato una certa pratica,
un certo gioco di mano di trattare questo ferro, che è stato loro insegnato
dall'esperienza” (1).
Savaresi attribuisce alla sola esperienza e all'abilità manuale dei
ferrazzuoli di Mongiana il merito di produrre ferro di buona qualità e
sottovaluta totalmente l'importanza dell'uso del carbone di faggio. Non gli è
infatti chiaro che proprio questo tipo di carbone è il quid che migliora
la resistenza meccanica del prodotto. L'uso di tale combustibile permetterà
alla ferriera di conseguire quei risultati che per molti anni contribuirono
alla discreta fama del ferro mongianese. Il ferro è buono non tanto per le
caratteristiche del minerale impiegato o per la perizia dei fonditori, ma
piuttosto perché per riduzione è usato carbone di faggio che, privo di zolfo e
fosforo, non inquina la ghisa durante la prima fusione. L'assoluta mancanza di
residui fosforici e solforosi nella seconda fusione dona al ferro la natura di
acciaio svedese ante litteram. Dopo
il 1860, un più deciso aggiornamento delle tecnologie di produzione avrebbe
evitato alla ferriera la brusca soluzione di continuità permettendole di tenere
il passo coi tempi e rintuzzare gli attacchi denigratori che, per quanto
pretestuosi, ne decretarono la chiusura. Eppure, ancora in periodo borbonico,
s'era accarezzata l'idea di convertire i processi di fusione all'uso del coke.
Precedentemente, in età murattiana, s'era pensato alla costruzione di forni a
riverbero che utilizzassero il carbone “alla maniera inglese”. La politica
del Blocco aveva vietato l'importazione di una materia non ancora reperibile sul
mercato ma aveva favorito la rivalutazione della miniera di grafite di Olivadi.
La grafite, comunemente detta in fonderia “piombaggine”, mischiata ad
argilla, era essenziale per la fabbricazione dei mattoni refrattari di
rivestimento degli altiforni, entrava come componente nella costruzione dei
crogiuoli, serviva a proteggere i metalli dall'ossidazione, era usata come
lubrificante o come dolcificante nella fabbricazione di pallini da caccia.
Prima che fosse rivalutata, la miniera di Olivadi era esplotata quasi
clandestinamente e la materia era venduta a basso prezzo a speculatori messinesi
che, via Venezia e Trieste, la inoltravano in Germania dove, grazie al suo
basso costo, era preferita alla grafite inglese (2).
Capitava così che per la costruzione di forni e crogiuoli si dovesse far
ricorso ai soliti tecnici tedeschi i quali giungevano con la materia calabrese
“riciclata” facendola pagare a prezzi esorbitanti. Nella
storia degli sfruttamenti minerari spesso il paese possessore delle risorse è
costretto a ricorrere a tecnici stranieri per strapparle al sottosuolo
ricavandone poco utile. Non diversamente fino a pochi anni addietro si sono
portati avanti gli sfruttamenti petroliferi nei paesi del terzo mondo. Si può
chiamare terzo mondo anche la Calabria del 1800: molti tecnici di compagnie
straniere vi richiedono “concessioni regie” per lo sfruttamento di giacimenti
non ancora ritenuti essenziali all'economia nazionale. Una società inglese
prenderà in appalto lo sfruttamento dell'unico distretto carbonifero
conosciuto nel regno: il bacino carbonifero di Agnana nel circondario di Gerace.
Fatto assurdo, la concessione è accordata agli inglesi in concomitanza con la
conversione di molti impianti nazionali (per es. Pietrarsa) all'uso di quel coke
importato a caro prezzo proprio dall'inghilterra. La conversione non è priva di
polemiche; queste, aspre e accese, sono alimentate dai giornali della capitale.
Uno degli effetti scaturiti dalla polemica Zino-Del Re è il rinnovato
interesse per le risorse minerarie del regno. La ricerca s'indirizza soprattutto
verso quei giacimenti di carbon fossile che quà e là affiorano nel territorio
nazionale, soprattutto in Abbruzzi e Calabria. Alcuni affioramenti calabresi
erano stati messi in luce da frane e smottamenti dovuti al terremoto del 1783,
e già in quell'anno, un certo Cav. Vivenzio scopre a Conidoni, nei pressi di
Briatico, un giacimento di sostanze fossili bituminose. Nel 1832, lo
“speziale” G.A. Farina invia dalla Calabria Ultra Seconda alcuni brani di
carbon fossile rinvenuti nella montagna di Laura, nel territorio di Curinga (3).
Le analisi su i campioni di questi due giacimenti deludono le aspettative di
quanti immaginavano già di possedere il prezioso fossile e assegnano al
carbone esaminato compiti secondari quale combustibile per fornaci di calce e
gesso e per cottura di mattoni e cretaglie. Il solo prodotto di Laura può
essere impiegato dai fornelli della seta organzina e nella fabbricazione di
“vitriolo” per la tintura dei tessuti. S'è da poco sopita la polemica
Zino-Del Re, che a Napoli rimbalza la notizia di frane che hanno messo allo
scoperto nella valle di Agnana ricchi strati di carbon fossile. Il governo non
perde l'occasione di mostrare la propria tempestività e nel settembre del
1835 incarica il Prof. Leopoldo Pilla di esplorare il bacino e di dare ragguagli
sul prodotto. Di
ritorno dal sopralluogo, Pilla rilascia entusiastiche dichiarazioni: “Io mi
recai ad esaminare questa miniera e con grandissima compiacenza trovai che di
quanti luoghi che si presumono carboniferi sono stati da me veduti nel Regno
quello di Agnana è forse il solo che può dare speranza di avere questo
fossile. Naturalmente la vicinanza di Agnana alle ferriere di Mongiana non
poteva che aumentare i vantaggi della scoperta: la posizione del luogo è quanto
mai propizia e quanto a me dovendo fare il mio avviso in questo affare dico che
i numeri vantaggiosi che presenta la miniera di Agnana sono agli svantaggiosi
nel rapporto di due a uno. In particolare la Direzione della Mongiana
sostituendo questo minerale ai soliti carboni nelle sue fornaci potrebbe trarne
vantaggio grandissimo” (4). I giacimenti fanno
parte di un bacino sparso in ampi brani che ricoprono tratti estesi dell'appennino
calabrese a non molta distanza dal mare Ionio. Alla luce della confortante
dichiarazione, il 5 novembre 1835, il governo decide di far sfruttare il bacino
per conto del ministero della Guerra e Marina. Oltre alla volontà politica,
sarebbe occorsa ora la capacità di organizzare i lavori di sfruttamento. Ci si
accorge di essere impreparati ad affrontare i problemi tecnici inerenti lo scavo
del fossile. Sarà giocoforza rivolgersi ad uno straniero, all'unico tecnico
del ramo disponibile al momento nel regno: l'inglese G. Beck concessionario
sulla piazza napoletana di una compagnia produttrice di coke. Beck
dà inizio ai lavori nella valle di Agnana ma naturalmente è suo interesse che
procedano il più lentamente possibile per non dare modo al regno napoletano di
liberarsi dalle importazioni del prodotto inglese. A tutto il 1845 è aperta una
sola galleria, un miglio ad ovest di Agnana nei pressi delle sorgenti del fiume
Novito. Contro ogni logica mineraria, Beck ha iniziato lo scavo dal basso
verso l'alto in modo che la bocca di miniera risulta inferiore a tutta la
galleria; invece di cercare di incontrare il fossile in profondità, ne perde le
tracce perché gli strati utili sono superati con scavi ortogonali e non seguiti
nel loro spessore.
L'esigua
quantità di carbone tratto alla luce è in contrasto con le aspettative
suffragate dalla relazione-Pilla; il governo decide di vederci chiaro ed invia
il colonnello D'Agostino a controllare l'operato del Beck (5).
Nel 1846, lo stesso re Ferdinando visita la galleria di Agnana, osserva i lavori
e manifesta la propria insoddisfazione per i risultati ottenuti (6).
Qualche tempo dopo, il capitano “dei Lavori” di Mongiana, Crescenzo
Montagna, nominato Presidente di una commissione incaricata di esplorare
definitivamente il bacino, esprimerà uno sconsolato giudizio sul lavoro
dell'inglese ad Agnana (7). Intanto, per prevenire
ulteriori inganni, si esonera Beck dall'incarico. Il rimedio escogitato non dà
risultati più felici. Si affida infatti il compito ad una società mista
franco-inglese la quale, pur iniziando con maggiore perizia e solerzia i lavori,
è bloccata nel suo intento dalle pressioni esercitate sul governo napoletano
dall'inghilterra, preoccupata, come già all'epoca della “questione degli
zolfi siciliani”, che le risorse carbonifere possano cadere anche in mano
francese (8). Bisognerà attendere il 1850 per
vedere catalizzato ancora una volta sulla valle calabrese l'interesse del
governo che, tramite il Direttore del Ministero degli Interni, ordinerà la
costituzione di una commissione di tecnici nazionali. Ne è nominato Presidente
il capitano Montagna la cui relazione sugli strati carboniferi di Agnana,
pubblicata sugli Annali Civili del Regno, dirà una parola definitiva sulla
natura del giacimento. Risulterà chiaro che al carbone in questione si potranno
assegnare compiti ristretti perché privo della perfetta qualità saldante.
Anche se sottoposto a distillazione ricca non produrrebbe mai un buon coke
d'altoforno. Il suo uso nella metallurgia potrà essere limitato ad operazioni
secondarie. Montagna aggiunge però che in considerazione della natura geologica
del giacimento non dovrebbe essere improbabile incontrare strati migliori;
invita perciò il governo a proseguire i sondaggi. Tra il 1852 e il 1862 il
carbone estratto ammonterà a poco più di 15.000 quintali che, imbarcati a
Siderno, sono inviati per i saggi agli arsenali napoletani. Dalle prove di
laboratorio si constaterà la sua bontà come combustibile per locomotive e
motrici navali. Nel 1855, la Marina napoletana effettua sul pirovascello
“Delfino” prove che, stando ai verbali di bordo, comprovano la buona
attitudine del carbone calabrese anche bruciato senza distillazione. Il rapporto
di consumo è inferiore di oltre il 30% rispetto al coke inglese. Le vicende politiche degli anni seguenti chiuderanno per sempre un campo di ricerca che forse avrebbe potuto rendere di più (9). |
|
|