Le
Reali Ferriere ed Officine di Mongiana |
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Capitolo 2 (a) Combustibile e forza motrice Per
evitare ulteriori trasferimenti, rendere stabile e definitivo l'insediamento
della nuova ferriera, nel 1773 il governo napoletano vara “pro Mongiana” una
legge a tutela del patrimonio boschivo. Il provvedimento, accolto con
soddisfazione da G.F. Conty, dà normativa all'annosa questione della
sistematica distruzione dei boschi, fagocitati in larga percentuale dalle
numerose piccole ferriere antenate di Mongiana. Tuttavia, trent'anni dopo,
quando l'Artiglieria prenderà in carico lo stabilimento, i militari
constateranno che il decreto di salvaguardia non è stato mai rispettato, nè
sono stati osservati i principi informatori della legge. Gli artiglieri
troveranno i boschi, che erano stati limitrofi alla ferriera all'epoca del primo
insediamento, già a dodici miglia di distanza dagli impianti. Verranno così
a mancare le ragioni prime che avevano consigliato il trasferimento da Stilo e
con il quale era stato possibile bilanciare l'aumento dei costi di trasporto del
minerale con la diminuizione di prezzo del carbone prodotto nei pressi della
ferriera. La legge del 1773 aveva tentato di cancellare l'assillo delle forniture
di combustibile. La situazione trovata dai militari è stigmatizzata dal
capitano “al Dettaglio” in un rapporto sullo stato delle foreste; “...l'oscitanza
dell'esecuzione delle leggi del passato Governo ha prodotto la perdita del
Bosco del Marchese di Arena, il quale dopo essere stato distrutto per la
carbonizzazione, vi ci hanno seminato e reso a coltura le terre, perciò trovasi
dell'intutto nudo di alberi, trasgredendo la legge del 1773 in cui fu ordinato
ai possessori dei boschi limitrofi d'impedire la cesinazione e semina nei loro
boschi colla pena di pagare 500 ducati ed avere la confisca dei loro beni...” (1). La
legge c'era, le multe per i trasgressori erano anche abbastanza salate. I
militari avrebbero potuto farvi ricorso e, alla debolezza delle amministrazioni
precedenti, avrebbero opposto pugno di ferro nell'obbligare tutti, nobili e
non, a rispettarla. La sola presenza del risoluto Corpo sarebbe valsa da
deterrente e, a dimostrazione della ferma volontà di farla rispettare, gli
artiglieri pongono a guardia di ogni singolo bosco un sorvegliante affiancato da
un drappello armato, con l'incarico di vietare pascolo, distruzione
ingiustificata di piante e germogli e controllare l'applicazione del divieto di
mettere a coltura i terreni disboscati. É
pur vero che la legge del 1773 non era riuscita a spazzare precedenti clausole
nocive che lasciavano ai proprietari dei terreni, cui lo Stato pagava il
boscaggio, ampi spazi di manovra: “...i boschi che sin da un secolo
e mezzo appartengono a questo stabilimento sono quelli chiamati del Demanio di
Stilo che sono ad Oriente di Mongiana, cominciano a tre miglia dal presente stabilimento,
della grandezza di due leghe d'alberi di faggio. Questi boschi furono comprati
dalla Università di Stilo essendo del Marchese di Arena, regalandoli al Re
per uso della carbonizzazione, ritenendosi il solo diritto di prendersi alcune
pertiche per loro uso e del diritto de/la fida e diffida degli animali che
s'immettono al pascolo...” (2). Dalle
poche pertiche, dal diritto di sequestrare animali altrui sorpresi al pascolo
abusivo o d'immettere nei terreni i propri (il che era comunque dannoso), si
giungeva alla riconversione agricola dei fondi disboscati e come tali ritenuti
alla stregua di terra di nessuno. Per dimostrare la determinazione dei nuovi
responsabili dell'impianto: “...uopo è che, per dare limite a questo
terribile inconveniente, si dia l'esempio con l'obligare il Marchese di Arena
all'esecuzione del decreto, di più costringerlo a seminare delle ghiande ed
allontanare gli animali per riprodurre la sua gran tenuta d'alberi
distrutta... ” (3).
Sul nobile
proprietario, se non avesse eseguito l'ordine, più severe sarebbero piovute le
sanzioni. Le minacce non sono dirette al solo Marchese di Arena, esse si abbattono
anche su altri proprietari, già tenuti d'occhio, abituati da sempre a
considerare le leggi provenienti da Napoli come sterile dimostrazione di un
lontano potere “centrale”. Nella lista dei sorvegliati figurano il
Principe di Roccella, la Duchessa di Girifalco, i Certosini, proprietari tutti
dei boschi che cingono da presso la ferriera. La
salvaguardia del patrimonio forestale non può però essere risolta con le
sole misure di polizia, nè da sole queste avrebbero potuto garantire durevole
attività ai forni. Il problema è affrontato con interventi di carattere
botanico, ed ecco lo stesso Ritucci suggerire di mettere a dimora il “pines
picea”, l'unico pino in grado di fornire eccellente carbone, e di piantare
nelle radure brulle la “betulla bianca”, essenza di facile e rapida crescita
produttrice di carbone dall'ottimo tenore calorico. Il capitano “al
Dettaglio”, con cipiglio tutto militare, ordina ai carbonari: “ .. per
ottenerlo ottimo (il carbone) bisogna che sia fatto d'està, e non
d'inverno, che il legname sia tagliato alla luna di ore tre, o gennaro, e che
non sia molto giovine perché in altro caso con tenendo mucillaginala, bisogna
fare nella carboneria molti buchi, chiamati sfiatatoi, per farvi intromettere
l'aria che anima il fuoco, causa di far venire il carbone brugiato, che chiamasi
Corvino, il quale è dell'in tutto inutile..." (4). Le
cure dedicate a carbonizzazione e forestazione non sono solo giustificate
iniziative dei responsabili della ferriera, preoccupati di rispettare il ruolino
di marcia imposto a Mongiana per soddisfare le esigenze delle armate. Murat in
persona dà disposizioni in merito. Nel Decreto n. 846, all'art. 5, ordina
alla Commissione Ritucci-Melograni-Paolotti: “(detta Commissione) designerà
quindi ed individuerà i boschi medesimi ed i regolatori ed annuali tagli da
farsi, avendo riguardo alla vegetazione e alla vita degli alberi in quel clima,
per ottenerne la perpetuazione”. Che non fosse una generica disposizione lo si
rileva dalla presenza in commissione di Giuseppe Melograni, Ispettore di Acque e
Foreste, chiamato quale perito del ramo forestale (5). Numerosi
e disparati i problemi da risolvere, non ultimo l'essere soggetti a proibitive
condizioni climatiche invernali che, per molti mesi, interrompono la
carbonizzazione. Qualche volta è capitato che le provviste di combustibile in
magazzino siano bastate ad appena due-tre giorni di lavoro perché le tardive
rimesse governative avevano impedito di carbonizzare l'estate per l'inverno, né
s'era potuta accumulare nella stagione propizia tutta la quantità richiesta
dalla campagna fusiva annuale. I militari si preoccupano di evitare che il
carbone venga versato a bocconi nel Carbonile, il più vasto locale di tutta
la ferreria (6), ed è loro cura provvedere a
congrue provviste. Non
si deve supporre che tutte le migliorie attuate in questo periodo siano
ottenute con la sola autorità, con vessazioni continue, o che i soli a pagare
lo scotto dell'aumento di produzione siano i lavoranti. In realtà sono respinte
dai militari richieste assurde e tutt'altro che popolari, provenienti dal
Ministero napoletano, adducendo le più varie argomentazioni. Al Ministero che
formula una domanda-inchiesta per sapere in quanto tempo la ferreria è capace
di somministrare all'esercito 60.000 cantaia di proiettili, si risponde che tale
inusitato quantitativo sottoporrebbe uomini ed impianti alle conseguenze del
super-lavoro e, premesso che simile massa di fusione esiga circa 40.000 some
di carbone, il consumo distruggerebbe nell'arco di pochi anni tutti i boschi
circostanti con la conseguenza di vedere interrotto per sempre il lavoro
alla Mongiana. Al Ministro, che suggerisce di requisire muli per incrementare
l'affluenza di combustibile, viene garbatamente ma fermamente fatto notare “...la
requisizione non è che l'atto della necessità del momento, è una violenza,
non è applicabile ad un sistema di lavoro lungo, regolare e ben ordinato; essa
farebbe montare il prezzo del carbone ad una metà di più di quanto non costa
coi muli e la tariffa di Mongiana e renderebbe assai più forte il prezzo della
materia grezza del ferro e dei suoi fabbricati... ” (7). Ma,
se non sono disposti ad esercitare l'autorità con la forza e a sottoporre i
subalterni ad eccessive soverchierie, i militari non ammettono in nessun modo
che gli stessi operai si dedichino al contrabbando o sottraggano materiali allo
stabilimento. Tutte le operazioni di taglio, carbonizzazione e trasporto vengono
sottoposte a minuziosi controlli: “...e per i carbonari, i quali sabbene
travaglino con tale metodo (ad “estaglio” cioè a cottimo), pure era
probabile che vendessero i carboni con speranza di maggior profitto a degli
estranei, si fecero delle operazioni comprovanti la quantità del legname che
suole ottenersi da un moggio di terreno boscoso, la quantità che un uomo può
tagliare per giorno, vedere contemporaneamente sorvegliata la carbonizzazione,
la quantità che può ricavarsi da una data quantità di legna. Intanto si raddoppiaro
i carbonari in tre porzioni ad ognuna delle quali si dette un Capo, l'obbligo
del quale consisteva nel dare parte dei mancanti, nell'avvertire se vi fossero
contrabbandi, infine si ordinò che giornalmente si mandassero di guardia sul
luogo della carbonizzazione due Guardiaboschi ed essi vi rimanevano ancora la
notte. In ogni fine settimana il Cap. del Dettaglio conteggia ad ogni Capo dei
carbonari la quantità che avrebbe dovuto dare secondo gli uomini che ha
avuto; detta quantità si paragona con quella in effetti ricevuta e se è meno
il Capo è punito a meno che non dica da chi la mancanza viene. Pe'
mulattieri essi pure travagliano ad estaglio, ma siccome se non si
sorvegliassero potrebbero mancare qualche giorno e profittare di un trasporto
che gli si offrisse a più caro prezzo, così venne ordinato che uno di essi
facesse da Capo agli altri, ed i suoi obblighi sono di portare un rapporto ogni
sera de' li mulattieri che mancano, de' li muli che sono ammalati, e siccome
il Cap. del Dettaglio in tutte le sere riceve il rapporto dei diversi oggetti in
minerale, carbone e legnami ricevuti nella giornata, così paragona se il
servizio de' li mulattieri è stato proporzionale, posto il numero dei
trasporti esistenti, posta la quantità degli oggetti ricevuti...” (8). Oltre
a ciò, un rapporto serale analogo, ricevuto dai carbonari, è inoltrato dal
Serg. del Personale al Capitano del Dettaglio il quale riceve quotidiane
informazioni sull'andamento dei lavori dal Caporale dei Guardiaboschi.
L'ufficiale riunisce, confronta e annota in un registro di carico i dati, e ogni
mattina si presenta a rapporto dal Direttore con il quale decide i movementi
giornalieri. Se la fitta rete di controlli impedisce macroscopici ammanchi, non
può evitare tuttavia che piccole partite di materiale s'involino per vie più
remunerative. Foraggiare le bande di briganti o vendere agli abitanti dei borghi
circostanti carbone destinato alla ferriera è una necessità dettata dalle
esigenze e il fatto non può sfuggire all'Amministrazione, né può essere
taciuto dai sorveglianti. Accade così che, pur di non far giungere le
provviste alle bande, la stessa amministrazione acquisti sottobanco il materiale
di contrabbando e, anche così facendo, ne ricavi un utile perché il prezzo
pagato è inferiore alle tariffe applicate dallo stabilimento per la vendita di
carbone a terzi. Gran
parte delle cause di simile stato di cose saranno eliminate dalla concessione di
aumento del 40% su taglio e carbonizzazione quando si sbloccheranno le
inadeguate, vecchie, tariffe del 1804. Con le nuove si pagherà ogni tomolata di
legname (dalla quale si ricavano quasi 500 salme di carbone) 11 ducati. La carbonizzazione
di una salma costerà alla ferriera 18 grana; il trasporto da boschi vicini
inciderà per altre 15 grana, quello effettuato da boschi lontani sarà pagato
18 grana. Per
effetto della nuova tariffa la salma di carbone (che corrisponde a 7 tomoli e
mezzo napoletani) è pagata in tutto 35 grana dai boschi vicini e 45 da quelli
lontani. Non è una pasqua, ma neanche poco a paragone delle precedenti
retribuzioni di fame. Se si ricorda poi che alla stessa epoca si provvede a
fornire una parvenza di assistenza sanitaria e ad istituire il fondo pensioni,
se ne deduce che i sistemi usati sono lontani dall'essere coercitivi. Tutto ciò
va ascritto a merito della nuova amministrazione militare e degli stessi
operai che, con il loro atteggiamento, non permettono un regime di sfruttamento
troppo duro. La
nuova tabella opera anche sostanziali distinguo tra i prezzi del lavoro estivo e
il tariffario della carbonizzazione invernale. Si accorda infatti un'identità
“inverno”, con sovrapprezzo di 7 grana per soma di prodotto lavorato e
consegnato nelle “giornate brevi” (da novembre a tutto aprile). Sono
incentivate le opere prestate dai boscaioli e vengono retribuite in maniera più
corretta le fatiche prestate in condizioni disagiate: “...questo aumento di
prezzo non s'intende stabilito in generale e nei boschi giovani, dove in
particolare il taglio sia più facile, ma si osserverà sempre che il prezzo
della fatica sia compensato in modo che un travagliatore ordinario possa
guadagnare almeno 30 grana per giorno, sia nelle giornate lunghe che nelle
giornate brevi” (9). È
evidente che non sono solo considerazioni umanitarie a promuovere gli aumenti,
ma motivi più precisi e concreti. Lo scopo è mantenere serrate le fila degli
addetti al settore, legarle il più possibile ad uno stabilimento che, giorno
dopo giorno, vede partire i carbonari alla ricerca di lavori più
remunerativi. Il centinaio di lavoranti del ramo ritengono conveniente prestare
opera al servizio della ferriera fin quando, in virtù della “filiazione”,
sono esentati dalla coscrizione. Se ciò garantisce una vita tranquilla, priva
dei disagi e pericoli del lunghissimo servizio militare, non offre però in età
matura fonti di reddito sufficienti ai bisogni familiari. Una spontanea
emigrazione verso i boschi liberi si concretizza non appena scade il termine
di filiazione: nel bosco libero la carbonizzazione può essere esercitata in
proprio con speranza di maggiori profitti. Nei boschi della vicina Serra infatti
il prodotto è venduto, sul posto della carboniera ed esente da trasporto, a più
del doppio della tariffa mongianese con quotazione di 60 grana a soma. La
nuova tariffa accordata dai militari incentiva molti a restare in forza allo
stabilimento e a preferire un guadagno minore, ma sicuro, piuttosto che
assoggettarsi agli alti e bassi del libero commercio legato in fondo alle
richieste di forniture domestiche degli abitanti dei paesi vicini e alle
forniture dei fabbri serresi. Oltre
al contentino, naturalmente dai militari è prevista la frusta che si abbatterà,
sotto forma di 10 carlini di multa, per ogni albero giovane tagliato in
fraudolenza o per l'abbattimento di un albero non preventivamente bollato dalle
Guardie forestali. La stessa pena sarà inflitta ai carbonari che fossero
sorpresi ad appiccare fuoco a pire poste al centro del bosco. Tale operazione
dovrà essere eseguita a cielo libero, nelle radure lontane dal folto delle
foreste. Ulteriori, esemplari, pene saranno sancite a chi estirpi arboscelli, a
chi recida gli “alberi d'avanzo” lasciati al centro dei boschi rasi per
fornire al terreno nuovi semi. È fatto divieto a tutti di servirsi di
ramoscelli per appiccare i fuochi di posta. Il Capocarboniere e la Guardia
dovranno controllare che la caduta di un albero reciso avvenga correttamente e
non a discapito delle pianticelle sottostanti. Sarà proibito tagliare spineti,
roveti e sfoltire cespugli in quanto culle e riparo da vento e neve per i germogli
. In breve: il bosco dovrà essere sorvegliato nella crescita favorendo il corso
della natura e, alla stregua di un giardino, intervenendo solo dove sarà
necessario. Il
divieto di libera raccolta della legna o di incetta di fascine non è applicato
ciecamente. Si salvaguardano elementari bisogni, abitudini e consuetudinari
diritti delle popolazioni di Mongiana e dei paesi limitrofi. A carico dello
stabilimento vengono corrisposte annuali provviste di carbone per riscaldamento
e uso domestico. Una scorsa ai dati stimola considerazioni sulla vita quotidiana
in paese e sulla equanimità della divisione. Le salme di combustibile fornite
dall'amministrazione (600 all'epoca napoleonica) sono distribuite con
proporzione decrescente tra ufficiali, sottufficiali e impiegati, truppa e
lavoranti. Agli ufficiali tocca il quantitativo “pro capite” minore perché
le loro abitazioni sono più comode e meglio protette dai rigori invernali di
quelle di tutte le altre categorie. A sottufficiali e impiegati spetta un
quantitativo individuale maggiore, essi infatti alloggiano in case di qualità
più scadente. Gli operai, artefici specializzati o semplici garzoni, percepiscono
una dote superiore: dimorano in case costruite alla meno peggio da essi stessi
se non, come alle prime epoche, in nude baracche di tavole. Si
provvede ai bisogni spiccioli degli abitanti di Mongiana, ma non si trascurano
nemmeno le esigenze e le abitudini delle cittadinanze adiacenti. Nel 1819,
l'ex Direttore Ritucci, trasferito a più importante incarico, quando deve
redigere un computo estimativo per l'acquisto per conto della ferriera dei
boschi di proprietà dei Certosini di Serra, ricorda ai superiori del
Ministero che su tali boschi è reclamato da parte dei serresi il diritto,
radicato da secolare consuetudine, della raccolta per uso proprio di legname e
fascine. Ritucci sottolinea la componente affinché nelle trattative di
compravendita tra Governo ed Esecutore pontificio sia dato giusto rilievo alla
cosa e sottolinea che i divieti, validi per i mongianesi, non possono essere
estesi ai serresi, pena il rischio di far decadere l'economia locale imperniata
sulle segherie ad acqua e sull'artigianato del ferro battuto, il quale ultimo
offre discreto mercato di vendita alla ferriera (10). Uno
degli obiettivi di tutte le amministrazioni della ferriera è l'acquisto di
estensioni sempre maggiori di bosco. Mongiana, oltre al carbone, consuma una
notevole quantità di legname; la materia è lavorata dalle segherie del paese e
ridotta alla forma di travi e tavole per tetti di fabbrica e solai, per
l'ossatura delle baracche che a loro volta sono ricoperte di tavole leggere, per
la costruzione di ponti e canali, per le strutture delle ruote idrauliche sostituite
periodicamente per i danni dell'imputridimento e del gelo. In miniera il consumo
di legname è esorbitante al punto da costringere a riciclare i puntelli per
ottenere i cappellotti. La Fabbrica d'Armi, e per essa la segheria, deve
fornire i calci di fucile e tutte le casse d'imballaggio. Infine la Marina Reale
napoletana preleva dai boschi di Serra e Mongiana gli abeti “con cui provvede
alla più bella e maestosa sua alberatura, che proviene specialmente da detto
bosco (Bosco di Fillò) che non contiene altra specie di legname e dove
gli alberi della stessa specie crescono con maggiore vigore e prosperità.”
(11). Non
appena se ne presenta l'opportunità il governo compra i boschi disponibili
sulla piazza di Mongiana; nel 1825, ad esempio, è stipulato un contratto
d'acquisto di un bosco di elci nel Comune di Placania (12).
Fin da settembre del 1813 un decreto ha assegnato alla ferreria gran parte delle
foreste circostanti. Lo stesso anno è varata la normativa sul ripristino e sono
stabiliti i periodi favorevoli all'operazione. La legge introduce il criterio,
mantenuto in seguito sempre in vigore, di suddividere l'estensione dei boschi in
quaranta parti eguali da sfruttare una ogni anno. Il nuovo metodo consente di
tagliare gli alberi nel pieno vigore, e l'introduzione dei cicli periodici
permette di pianificare la produzione e sopperire alla mancanza di combustibile.
Non mancano però gli inconvenienti perché il lavorio della scure intorno a
tronchi di notevoli dimensioni lascia, abbandonate sul terreno, molte schegge di
legno e inoltre il carbone prodotto da piante pressoché quarantenni non ha
resa calorica ottimale. Tale metodo sostituisce il precedente, suggerito da
Melograni e tenuto in uso pochi anni, di tagliare periodicamente i “polloni”
ricresciuti intorno alle ceppaie rase. Il precedente consentiva minore fatica
di taglio, limitato spreco di schegge, maggiore resa calorica del carbone ricavato
da legno di giusta età. Tagliare il “bosco basso” a conti fatti produceva
più carbone, ma purtroppo poteva essere usato solo per le essenze dalla facile
ricrescita di “rampolli”. A
Mongiana, lungo tutto l'arco di vita della ferriera, le fasi della
carbonizzazione rimangono inalterate e, anche ai nostri giorni, non hanno subìto
modifiche sostanziali. I carbonari erigono ancora le pire; basta salire dalla
marina ionica su per la strada di Ferdinandea al Pecoraro, o lungo le strade
interne ai boschi, per vedere alto sui boschi il fumo delle carboniere. “A
mani vuote”, di Saverio Strati, narra la dura vita dei carbonari calabresi del
giorno d'oggi che ancora forniscono gli abitanti dei paesi montani le cui cucine
vanno ancora a carbone e dove unico “termosifone” è rimasto il braciere. Nel
sistema di carbonizzazione in uso a Mongiana nel diciannovesimo secolo sono
riscontrabili differenze con il metodo alpino o francese. L'operazione è
affidata al Capocarboniere che, oltre alla retribuzione giornaliera,
percepisce una percentuale su ogni cantaio lavorato e consegnato. Il Capo ha
alle proprie dipendenze i carbonari che sono pagati a cottimo, anticipa loro le
paghe e sorveglia tutte le fasi. Sua è la responsabilità della buona riuscita
ed a suo carico ricade il trasporto. La sezione di bosco da recidere è
tracciata ogni anno dalle Guardie forestali previo parere favorevole del cap.
del Dettaglio o della Direzione. Le Guardie, agli ordini del Guardia-Caporale,
si recano per tempo sul posto in armi e uniforme (di panno blù, polsini e
colletto scarlatto, bottoni di metallo bianco con il giglio borbonico sormontato
da corona). Le guardie marcano gli alberi destinati alla carbonizzazione annuale
con un bollo. Il bollo è dato con il colpo di un martello-punzone che imprime
al legno vivo la lettera “M” (Mongiana), un altro, con le lettere “SC”
(Sicilia Citeriore) è martellato sugli alberi di limite della sezione e sui
tronchi dei quindici alberi a moggio (13)
che, per l'Art. 35 della legge forestale n. 967 del 21/8/1826, sono
lasciati integri per fornire i “semi di speranza”. I martelli del Governo
sono conservati in astucci a due chiavi di cui la prima è custodita dal
Direttore e la seconda dal Guardia-Caporale. Il bollo è apposto con cerimonia
ufficiale: di ogni albero è presa nota nel verbale iniziato a redigere all'atto
del prelievo dei punzoni. Il verbale, firmato dal Guardia e dall'agente al
quale il martello è consegnato, specifica gli usi al quale il martello è
servito (14). All'operazione di bollo fa seguito
quella di taglio che è effettuata di regola durante la “stagione del sugo
fermo” (dall'inizio dell'autunno alla fine dell'inverno). Si opera il taglio
con la sola scure, di rado con la sega, troncando il fusto a circa 120
centimetri da terra là dove il colpo è più violento e preciso. Il
Capocarboniere suddivide il settore assegnatogli tra i taglialegna della sua
squadra ognuno è responsabile della propria zona e non può invadere l'altrui.
Ad albero caduto, il tronco, mondato dai rami, è diviso in monconi di 80
centimetri chiamati “tropelli”. I tropelli sono fatti rotolare fino alle
carbonerie (raramente si fa ricorso ai buoi dello stabilimento per trascinare il
tronco intero). Nei pressi delle carbonerie i tropelli vengono attaccati dalla
scure e ridotti in spezzoni. Il
periodo di carbonizzazione va dalla primavera alle prime nevi anche se i più
attivi (eufemismo usato per “bisognosi”) protraggono il lavoro intorno
alle pire anche in pieno inverno. Poiché periodo di taglio e carbonizzazione
non coincidono, spesso i tronchi giacciono riversi per tutta l'estate. La vera
e propria carbonizzazione avviene con il solito sistema in uso nei boschi:
scelto un luogo adatto (terreno argilloso, compatto non poroso), piantato il
piolo centrale e delimitata la circonferenza di base del cumulo, si costruisce
l'ogiva (operazione, affidata ai più vecchi ed esperti carbonari, dalla quale
dipende la riuscita del carbone). Attraverso il canale d'accensione si dà fuoco
alla pira il cui diametro di base misura quattro metri (a Mongiana risulta
minore di quello alpino, maremmano e francese). Il processo di combustione è
sorvegliato in continuazione, lo si corregge intervenendo là dove il colore del
fumo è spia al corretto progredire della combustione. Il tempo necessario alla
carbonizzazione di un cumulo varia in funzione della qualità del legno, secco o
verde, dell'umidità dell'aria, della sua temperatura, dello spirare dei venti,
ecc. In genere si fa in modo che avvenga in sei-otto giorni, allo scadere dei
quali si otturano i fori d'alimentazione dell'aria e si blocca il processo.
Trascorsi due giorni di raffreddamento, si asporta lo strato di terriccio
superficiale e il cumulo è smontato (operazione notturna che permette di
distinguere la presenza di fuoco residuo). Il carbone, deposto in capaci
sacche di canapa, a basto di mulo, è portato alle ferriere dove i mulattieri
scaricano il materiale sugli spiazzi antistanti i carbonili e dove attendono
ventiquattro ore prima di poterlo consegnare. La sosta serve a prevenire incendi
che si potrebbero sviluppare per spegnimento difettoso. Incendi accidentali
verso la metà del secolo costringeranno ad interrompere la carbonizzazione
nei mesi di luglio e agosto per evitare fenomeni di autocombustione (15).
Allo scadere della quarantena, il materiale è consegnato agli addetti ai
magazzini e conteggiato da un sottufficiale. I
boschi di supporto alla Mongiana sono composti da essenze e fruttici non
uniformi, anche se vi predominano faggi e abeti che, come spesso accade,
vegetano in mutua complementarietà. Questa caratteristica è la prima cosa
notata dai membri della missione di studio inviata a Mongiana dal Ministero
della Marina all'indomani dell'Unità d'Italia. La "Commissione per le
ferriere" giunge in paese per sottoporre la ferriera a un generale “check-up”.
La posta per i Mongianesi è alta, ne va della sopravvivenza della
siderurgia calabrese. E' della partita l'ingegner Felice Giordano che, con i
colleghi, sottopone a radiografia miniere, attrezzature delle ferriere e
personale. Nel 1864, pubblicherà una relazione sul grado d'efficienza delle
ferriere lombarde, aostane, toscane e calabresi. Nel
descrivere l'impatto con i nostri boschi premette: “Questi boschi che
ombrano le alte pendici e le vette medesime dell'Appennino calabrese sono non
indifferente ricchezza e l'ornamento insieme di quei monti che bagnano il piede
in due mari. Sulle sponde di questi e sulle prime chine, un clima mite, giardini
dei più fini agrumi, estesi ed ubertosi uliveti; sulle medie pendici, boschi di
castagno esemplarmente coltivati a verghetto e pertichetto; sulle alture e le
vette, annosi boschi d'alto fusto in cui vegetano misti e rigogliosi il faggio
(in predominio), l'abete, il pino silvestre ed in copia minore querce, aceri,
frassini, tassi, olmi e fruttici diversi. La natura delle essenze silvane, il
suolo granitico, la freschezza dei siti e delle acque, imprimono a questa
regione elevata una viva sembianza con certi siti delle nostre Alpi e persino
con le regioni boscose di Germania, particolarmente della Ercinia” (16). Ecco
un ennesimo viaggiatore arrampicarsi sulle balze delle montagne serresi e
restare stupito ed ammirato: mai avrebbe supposto di trovare, tanto a Sud,
Alpi e Germania. Ma, passata l'improvvisa emozione, lo stupore volge subito in
critica. Comincia col deprecare la mancanza di strade all'interno delle foreste
e questa sola ragione, non consente di trarre “...tutto il possibile profitto
dalle masse enormi di alberi di varia età che vi sono accumulate e di cui gran
parte potrebbe smaltirsi per usi diversi alle sottoposte marine del Tirreno e
dello Ionio. Perciò la coltivazione loro è trascurata e può dirsi abbandonata
alla natura medesima; né vi sono infrequenti le devastazioni, quantunque meno
che in altri siti ” (17). Invitiamo
i discendenti mongianesi ad un postumo ringraziamento per l'attestazione fatta
ai loro avi sulla cura delle selve, trattate a Mongiana assai meglio che in
tutti gli altri luoghi d'Italia visitati dalla commissione. Rileviamo solo che
sfuggono all'ingegnere i perché di simile stato di cose. Molta meraviglia
suscitano in lui i prezzi correnti del legname locale: “...il valore del
legnatico sul sito è mitissimo. Un abete secolare non si calcola guari più di
L. 13; un pino silvestre ordinario L. 2,50; un faggio anche grosso capace di
fornire un venti steri di legname da carbonizzare (vale a dire un nove quintali
di carbone) si calcola da L.1,30 a L.1,50...” (18). La
mentalità mercantile dell'ingegnere si rifiuta di credere che da tale massa di
legname non si tragga tutto l'utile possibile. Quanto sembra “abbandonato a sé
stesso” stimola gli appetiti di chi ha già davanti il miraggio d'indaffarate
segherie intente a sbozzare il prodotto, inviano alle “sottoposte marine”
per spedirlo poi ai mercati più opportuni. Altro stupore per il valore del
legnatico locale “esageratamente mite e tenue” rispetto alle tariffe delle
valli lombarde e aostane, e sensibilmente inferiore a quelle toscane. Suscita
incomprensione il disinteresse per il valore venale nelle popolazioni locali e
sfugge dunque tutta l'accorta azione di calmiere che le autorità precedenti
hanno operato per preservare le foreste dalla distruzione accarezzata dal
Giordano. A
volte, lo stesso ingegnere travisa i dati, non sappiamo se in malafede o per la
frettolosità di una visita la cui diagnosi e terapia sembrano pilotate e già
scontate. Giordano annota: “...per le provviste minori si pagava L. 0,145 a
quintale (3 grana a cantaio) di carbone introitato in magazzino. E qui
accadeva che talora i carbonari e mulattieri incaricati di fare e trasportare il
carbone molto ne trafugavano con perdita evidente dei proprietari. Questi
carbonari e mulattieri esigevano che il prezzo fosse pagato non sulla quantità
posta in magazzino bensì su quella presunta: in tal caso le frodi cadevano a
danno del Governo” (19). Non si capisce come abbia
potuto immaginare che il governo borbonico fosse tanto sprovveduto da pagare
sulla parola, o come gli addetti ai magazzini potessero convalidare le quantità
dichiarate dai tra-sportatori senza controllo, dal momento che fin dall'epoca
napoleonica i mulattieri non potevano più richiedere compensi per quantità
presunte ma venivano multati proprio per le presunte quantità mancanti. Ma se,
mosso dal solito atteggiamento di sufficienza per tutto ciò che è
“borbonico”, la frettolosa visita può dar luogo ad equivoci, quando si
tratta di fare qualche apprezzamento sulla nuova gestione “piemontese”
sfugge una confessione: “Ora si procede con qualche modificazione a tal
sistema; però il conteggio con li diversi carbonieri riesce molto complicato ed
esige molto lavoro d'impiegati” (20).
L'involontaria gaffe ci riporta ai tempi di quella immigrazione in massa
di funzionari di ogni ordine e grado che i meridionali subiscono subito dopo
l'Unità. Se nuovi posti di lavoro sono assicurati a chi ha conquistato il suo
bravo posto al sole, costoro devono fare in modo che neanche uno spillo vada
perduto e dovranno insegnare al Sud come vanno fatte le cose, costi pure il
“molto lavoro d'impiegati”. Quand'anche l'arrivo dei nuovi contabili sia
stato motivato dalle notizie sull'andamento delle cose nel meridione, suggerite
dagli “unitari” dell'ultima ora, sempre pronti a condannare il vecchio regime
pur d'ingraziarsi i nuovi dirigenti, non sappiamo quanto la presenza dei “policarpi”
piemontesi ripaghi la perdita di qualche soma di carbone, sempre ammettendo
le teorie di pagamento del Giordano. È vero, e lo abbiamo detto, che il
contrabbando aveva avuto andamento endemico ma, quando la commissione visita la
ferriera, esso è finito da un pezzo, altrimenti, ne siamo certi, i militari
avrebbero sorpreso qualcuno con le mani nel sacco e, come è capitato a coloro
che dopo l'alluvione del 1855 tentarono di appropriarsi e vendere materiale
dello stabilimento trascinato a valle dalle acque, le pene non sarebbero
mancate. Per
chiarire l'ottica della visita della commissione e per marcare la golosità per
l'inatteso patrimonio forestale, ecco parte delle conclusioni tratte dal
Giordano: “...L'antica amministrazione non scevra di mende, come in generale
quella del decaduto governo, usi antiquati e mancanza quasi assoluta di
comunicazioni contribuirono a rendere anzicché proficua al governo
l'industria mongianese. Del
resto, prescindendo dagli abusi e dai difetti inerenti, sarebbe difficilissimo
oggigiorno conoscere il preciso risultato finanziario delle antiche gestioni,
mentre il sistema allora tenuto di contabilità fondato sulle tariffe e su
prezzi convenzionali di un paese in cui regnava il principio dell'isolamento e
del protezionismo, non poteva presentare che posizioni fittizie e senza
relazione col vero tornaconto industriale. Ora si tratta di dare opera energica
per trarre da quei governativi stabilimenti un miglior partito, avviandoli
all'avvenire più consentaneo alle loro abitudini. Semplificare
l'amministrazione, chiudere le sorgenti di abuso e di spreco, scegliere,
distribuire e condurre con più convenienza le lavorazioni, migliorare le
strade, sono li compiti più essenziali ed urgenti. Ed anzitutto conviene
decidere se tale industria debba proseguirsi dall'amministrazione del governo o
rimettersi all'industria privata. Quanto al principio generale non v'ha dubbio
che prevalga quello dell'industria privata: soltanto nel caso speciale esita
l'opinione di alcuni di tema che il privato troppo preoccupandosi del proprio
tornaconto immediato, non corra a sacrificare duramente le usanze e gli
interessi di quelle popolazioni montane che da tanti anni campano in un lavoro
parcamente ma regolarmente restribuito. È inutile discutere ormai su questa
difficoltà (...) poiché se l'intrapresa offre in sé elementi di buon
successo questi vantaggeranno necessariamente, ridotti bensì di numero ma
migliorati di condizioni, gli applicati ed i lavoranti. Certamente
occorre che il governo nella sua concessione proceda con prudenza, né trascuri
le cautele che sono consentibili col libero esercizio dell'industria. La
Commissione intanto ammise a grande maggioranza il principio del più sollecito
passaggio dall'amministrazione governativa alla privata, consigliando in pari
tempo il governo in vista delle locali difficoltà ad usare ogni agevolezza
possibile verso gli assuntori. Infatti se da un lato egli è indispensabile che
il governo lasci all'industria privata la facoltà di provvedersene a mite
prezzo gli occorrenti legnami e carboni, per altro non si potrebbe senza qualche
pericolo abbandonarli per intero a disposizione della medesima. Come vedemmo
quei boschi possedono oltre alle essenze utili all'intrapresa in discorso altre
assai che possono riuscire al possessore fonte lucrativa di spaccio: perciò
non v'ha ragione onde cedendo all'industria l'uso esclusivo ed anche la proprietà
della miniera e degli stabilimenti, il governo debba anche cederle in egual modo
l'utile dei propri boschi. Potrebbero essi restare come prima sotto
l'amministrazione forestale e questa fare annualmente al concessionario un assegno
dei generi occorrenti a prezzi convenuti...” (21). Discorso
equivoco e finalizzato. La sentenza per Mongiana è stata emanata; ci sia
concessa qualche considerazione. In primo luogo sarebbe stato semplice conoscere
il risultato economico di tutte le gestioni precedenti. Bastava che qualcuno
della commissione fosse
andato a scartabellare in Amministrazione, avesse prelevato i dati produttivi e
finanziari registrati puntualmente, applicato le tariffe dei dazi napoletani e
la cosa era bella e fatta. Ammesso che la fretta avesse impedito un'analisi
minuziosa, in base a quale considerazione è giudicata “onerosa anziché
proficua” la Mongiana? Si parla di semplificare l'amministrazione ma non si
capisce come, dal momento che la stessa è affetta da progressiva elefantiasi
piemontese. In linea di principio non si vorrebbero sacrificare gli interessi
dei salariati e si propone poi un drastico licenziamento di soli operai. Un duro
colpo ai livelli d'occupazione; selezione “naturale” e senza doverne dare
conto a nessuno. La commissione, anche se non all'unanimità, suggerisce di
attenersi ai principi correnti e scaricare tutto ai privati. Attenzione però:
stabilimenti e miniere si, ma neanche un alberello. L'intraprendente
industriale che avesse rilevato la ferriera, se avesse avuto bisogno di carbone,
avrebbe dovuto pagarlo pronta cassa anche se a prezzi concordati. Certo la
commissione non ha il tempo di risolvere simili bazzecole, né di riflettere che
aveva trovato i boschi intatti e rigogliosi grazie ai ben 186 articoli di una
vecchia legge forestale (la N. 967), decretata da un governo “miope” i cui
principi, come essi denunciavano, erano l'isolamento e il protezionismo.
Protezione poteva significare anche salvaguardia del patrimonio nazionale.
Sarebbe bastato leggere qualche articolo della legge forestale meridionale per
rendersene conto. Protezione
era; Art.
12. Qualunque
terra boscosa non potrà essere disboscata e dissodata. Art.
13. Per
ovviare a' danni di una coltura mal intesa, vogliamo che anche le terre salde
non boscose, purché la loro saldezza non nasca da regolare vicenda di coltura
non possano dissodarsi senza permissione. Art.
16 Per
le terre in pendio, tanto se sono, quanto se non sono boscose, dette
volgarmente terre appese, solcate facilmente dalle acque, e che apportano danno
a' terreni inferiori, non potranno mai accordarsi permissioni per disboscamenti
e per dissodamenti. Art.
17. Per
tutte le altre terre che non fossero nel caso indicate dall'art. precedente, i
disboscamenti ed i dissodamenti potranno permettersi nel modo fissato dalla
presente legge, dietro ponderato esame delle convenienze locali; esame che,
laddove si tratti di terre boscose, dovrà anche versare sulle circostanze che
possono, secondo i casi, per mancanza di combustibile e per altri oggetti
influire su la utilità pubblica. Art.
35. Il
taglio regolare si farà recidendo tutti gli alberi rasente terra, riserbandone
solo 15 a moggio, che saranno marchiati per seme, o di speranza; e mettendo a
difesa la parte recisa, o sia vietandone l'accesso agli animali, finché non
verrà permesso dalla Direzione generale. Art.
38. La
Direzione potrà permettere il taglio a salto quando i giovani boschi, destinati
a crescere ad alto fusto, avessero bisogno di essere diradati. Potrà
permetterlo quando si trattasse di alberi isolati negli estremi e nelle vie dei
boschi, di alberi di speranza o da seme giunti a maturità, e di alberi periti
in piedi, o affetti da carie. Art.
76. Essendo
gli animali nocivi alle selve ed ai boschi, gli amministratori cureranno che
ne sia vietato il pascolo, fuorché ne' luoghi sassosi e negli inutili cespugli,
quando non vi cagionino danno. Art.
79. Ne'
terreni contigui a' boschi non si potranno mai bruciare le stoppie entro la
distanza di 400 palmi.
Per
tacere delle pene inflitte a colui che fosse stato sorpreso a violentare,
distruggere e appiccare fuoco alle selve. La pena sancita dall'articolo 108
era esemplare: “Colui che farà usurpazione nei boschi e nelle selve suddette,
sarà punito col primo grado di prigionia, a' termini dell'articolo 428 della
seconda parte del Codice. Se però l'usurpazione fosse accompagnata da
disboscamento e dissodamento, alla prigionia si aggiungerà l'ammenda stabilita
nella sezione II del presente titolo” Questa
legge forestale, di estrema modernità, era legge nazionale e non circoscritta
alle sole tre Calabrie (22), e che a quei tempi le
foreste erano rispettate lo testimoniano le poche devastazioni notate dal
Giordano. Un'attenzione diversa per le vicende silvane era contenuta nelle prime
leggi forestali unitarie le quali, plasmate sulla legge sarda, contenevano
principi diametralmente opposti a quelli della “967” napoletana. Il governo
unitario introdusse immediatamente nel meridione la legge forestale sarda e
non vi introdusse mai quella mineraria. Oggi, tutto ciò non può non essere
interpretato come politica di aperto sfruttamento. Infatti, la mineraria che
incentivava il lavoro nel sottosuolo non venne mai estesa alle regioni
meridionali e le miniere locali furono abbandonate mentre si fece subito
ricorso a una legge forestale che incentivava i disboscamenti. Si ripropose
identica sul continente una legge che aveva creato qualche vantaggio alla
popolazione della Sardegna con il recuperare agli ovini molti terreni inutilizzabili
per la bassa boscaglia a macchia. Riproporla in Italia fu invece fatale per
molti boschi, sacrificati sull'altare del rapido e facile guadagno, con la scusa
di creare spazi a mandrie di cui per altro non si vide mai l'ombra. Si favorì
la corsa alle speculazioni e si offrì addirittura un incentivo ai proprietari i
quali videro improvvisamente rivalutati i loro terreni boscosi e ne trassero
un utile immediato.
Un
aspetto della cupidigia per l'inatteso patrimonio boschivo è messo in luce
dalla relazione dello stesso Giordano il quale tratta assai superficialmente
molti aspetti dello stabilimento metallurgico (di cui in genere si sofferma a
cogliere solo i lati negativi) mentre descrivere minuziosamente le foreste
circostanti la ferriera e ne fa attenta valutazione. L'ingegnere effettuò un
lungo giro di perlustrazione nei boschi: partendo dal Bosco di S.Maria (o
S.Miceli), si mise in cammino per la strada Serra-Mongiana e raggiunse i due
boschi contigui allo stabilimento (Bosco di Archiforo e Bosco Chiudilli). Poi,
seguendo il sentiero che univa Mongiana a Ferdinandea, superato il valico del
Pecoraro, giunse al centro dell'enorme Bosco di Stilo e, con un giro in senso antiorario,
riuscì a visitare il Bosco Lacina, il Boscarello, il Fillò e in ultimo il
Bosco di Dinami (23). La
superfice delle parti demaniali, escluse le comunali e private, era calcolabile
in 8.000 ettari circa. Essenze dominanti: il faggio e l'abete pectinata, l'abete
rosso, il bianco, l'agrifoglio, il castagno e l'erica. Vaste estensioni di pini
silvestri, lecci, roveri, tassi, farnie, aceri, alni e, in località Chiuselli,
rarissimi pini laricii importati e messi a dimora dall'ispettore forestale
Thomas. Dai fondi demaniali potevano essere ricavati annualmente 32.000 quintali
di carbone di faggio oltre a 3.000 quintali da fruttici diversi. Giordano non
riuscì a valutare i boschi di proprietà privata e per il computo estimativo
fece ricorso ai periti del posto. Nel loro stato di coltura potevano fornire
51.000 quintali di carbone l'anno il che fa supporre che fossero assai più dei
demaniali. Sommando i dati, e premesso che un bosco di quarant'anni
discretamente popolato, con taglio completo e salvati gli alberi di tutela,
poteva rendere 500 some a tonnellata boscosa (300 quintali per ettaro), si
otteneva un prodotto medio della quarantesima parte, cioé 750 chilogrammi per
ettaro. Meraviglia e incredulità del Giordano che scrisse: “tale prodotto in
carbone è assai ragguardevole, ed ove mai fosse sicuramente ammissibile
indicherebbe in quei siti grande forza vegetativa”. Nel trarre le
conclusioni aggiunse: a... in complesso si potrebbero ottenere dai boschi non
demaniali un 50.000 quintali di carbone, che con li 30.000 dei demaniali costituirebbe
l'annona di quintali 80.000” (24). E se ne partì
insieme agli altri cervelli della commisisone. La partenza fu salutata con
naturale timore, il destino della ferriera era ormai deciso; la “sentenza”
di Giordano fu pubblicata nell'anno 1864. Il Governo, per fortuna, non fu cieco
al punto di seguire pedissequamente i consigli dei propri esperti. Era
abbastanza chiaro che la sopravvivenza della ferriera era legata strettamente
ai boschi, anche se oramai il combustibile vegetale aveva fatto il suo tempo e,
quando Fazzari s'improvviserà industriale, risultava già anacronistico da
molti decenni. Comunque, compilato nel 1873 il Capitolato d'asta per
l'alienazione dello stabilimento, il Governo assegnò anche i boschi; ma il dato
indicativo di quanto a malincuore li cedesse è che delle 524.000 lire richieste
per l'acquisto di tutto il complesso, ben 416.000 sarebbero dovute servire per
aggiudicarsi la sola dote forestale dello stabilimento. Il resto aveva ben poco
valore in quanto si era già deciso di abbandonare a sé stessa la Mongiana.
Oggi,
in parte, il lavoro nei boschi continua; alcuni mongianesi risparmiati
dall'emigrazione forniscono la loro opera come sorveglianti, sulle torri
avvistafuoco. Qualcuno carbonizza ancora. Altri, più fortunati, ottengono dal
Corpo Forestale dello Stato lavori stagionali come taglialegna, piantatori e
sorveglianti del parco di ripopolamento di animali montani gestito dal Corpo e
dal Comune. Da anni la presenza della Forestale a Serra e Mongiana ha favorito
il rimboschimento e costituisce un baluardo di difesa contro il depauperamento e
degrado ambientale cui la regione è stata sottoposta dal giorno in cui fu
abbandonata in mano agli speculatori. In ultima analisi, quello che era una volta un lavoro “complementare” alle forge è diventato oggi vitale per quei pochi coraggiosi che si sono rifiutati d'emigrare. |
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