Le
Reali Ferriere ed Officine di Mongiana |
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Capitolo 1 (14°) Storia 1860 - Annessione all'Italia e crisi post.unitaria In
piena fase di lievitazione, la Mongiana è raggiunta dalle colonne
garibaldine. Nei primi mesi del 1860, lo stabilimento è retto dal maggiore
Giuseppe Del Bono il quale, oltre ai 1500 operai e impiegati, comanda il
distaccamento d'Artiglieria. Il contingente militare consiste in una compagnia e
una brigata mobile: in tutto 151 uomini che a luglio, in conseguenza dei fatti
d'arme siciliani, sono ridotti a 62 unità (gli altri vanno a rinforzare le
piazze militari costiere). Il morale dei soldati è a pezzi perché, nonostante
i trionfalistici bollettini ufficiali, loro, che sono a diretto contatto con
Pizzo (centro di smistamento e porto d'appoggio alle operazioni militari dove
in continuazione giungono i reduci dal teatro delle operazioni) conoscono il
reale andamento delle cose. Non sono neanche convinti della opportunità di
battersi contro coloro che si presentano come fratelli, fautori di una nazione
unita e migliore. Inoltre, sono in fermento per la concessione dello Statuto
da parte di Francesco II il quale, privo del carattere del padre e senza la
tenacia dell'avo Ferdinando IV, si trova suo malgrado a gestire eventi più
grandi di lui. Sono in agitazione gli stessi dirigenti locali, in contrasto le
fazioni politiche (103). A Serra sono sorte
scaramucce tra pattuglie dello stabilimento e gli uomini della nuova Guardia
Nazionale, braccio armato della Carta costituzionale, strumentalizzata dai
liberali del luogo per il controllo delle amministrazioni comunali. Lo
scioglimento poi della vecchia Guardia Urbana, che per tanto tempo ha
collaborato al mantenimento dell'ordine, agli occhi dei militari è
un'ennesima prova dell'incapacità del potere centrale di arginare la marea
montante. Da un lato vorrebbero dare una lezione ai vari liberali in sentore di
“garibaldisti”, dall'altro, con soli sessantadue uomini a disposizione,
con la responsabilità dello stabilimento e con gli operai che da giugno non
percepiscono la paga, sono seduti su una vera polveriera e sono costretti a
mordere il freno. Tra tanta incertezza si leggono i dispacci del Comandante
l'Artiglieria sulle “vittorie” dei napoletani in Sicilia , dispacci che non
convincono più nessuno. Si attendono gli eventi ma il lavoro non è
interrotto, continua in un'atmosfera scandita dalla lettura pubblica di
bollettini e ordini del Comando, riletti a volte puntualmente, articolo per articolo,
per sere e sere di seguito. Ad
agosto gli eventi precipitano. Garibaldi sbarca in Calabria e, vinta la
resistenza oppostagli dai borbonici a Reggio, giunge il 28 a Pizzo dove lo hanno
preceduto le sue avanguardie. Il
giorno prima, il capitano del Deposito di Pizzo si è affrettato a comunicare al
Direttore di Mongiana: “...gli artiglieri del distaccamento nel vedere
sventolare in questa città la bandiera costituzionale e piemontese han voluto
andarsene in seno alle loro famiglie, dicendo che saranno sacrificati dimorando
quì...”. Niente aveva potuto fermarli, neanche la sua autorità di
capitano “mentre non si rispettano né anco i generali” (104). È
da poche ore partito il corriere con il dispaccio che, per la stessa strada, si
mette in marcia una colonna garibaldina con l'ordine di requisire lo
stabilimento; la comanda il capitano Antonio Garcea. Del Bono, comandante
della Mongiana, ha appena terminato la lettura dell'allarmante dispaccio che si
rende conto di essere già accerchiato dalle camice rosse. Al momento dispone
di 25 uomini e pochi ufficiali coi quali, anche se lo volesse, non potrebbe
opporre alcuna resistenza. Garcea
invia emissari con un secco ultimatum: “Signor
Direttore, sono stato spedito dallo Illustre Dittatore con una forza di
milletrecentosettanta uomini per prendere possesso dello stabilimento; le
condizioni che si offrono sono le seguenti: 1)
La consegna delle armi del distaccamento; il distaccamento
di 25 uomini uscirà con l'onore delle armi e le deporrà fuori lo stabilimento,
ritenendo quanto di proprietà del soldato; 2)
Gli ufficiali saranno rispettati, e riterranno le armi
e quanto loro appartiene; 3)
Tutti i soldati e Sotto Ufficiali spiegheranno la loro volontà, se vogliono
servire nell'Armata Nazionale, o pure vogliono ritornare alle loro case o
andarsene in Napoli a riunirsi al resto dell'Armata Regia, saranno liberi di
fare il loro meglio; 4)
Ella con tutti gli Ufficiali ed impiegati dello stabilimento resteranno ai
loro posti, e risolveranno se vogliono servire, o pure vorranno ritirarsi presso
la Truppa Regia in Napoli, o nelle loro famiglie. Però tanto Ella che gli
Ufficiali ed impiegati non si dovranno muovere dai loro posti finché non
avranno dato una esatta consegna dello stabilimento agli ufficiali dei vari
rami; Ove
non si accettano le condizioni di sopra, il distaccamento resterà armato e si
preparerà a combattere. La
risposta tra due ore” (105).
Anche
troppo il tempo concesso a Del Bono per decidere se affrontare con 25 una
colonna di 1370 uomini! “Non essendovi resistenza da opporre, non restava
che cercare di ottenere le migliori condizioni per una onorifica
capitolazione” scriverà in seguito al generale dei Corpi Facoltativi in
Napoli. Così l'atto della resa è firmato il giorno 27 stesso con in calce un “si
accettano mantenendosi le condizioni suddette” (106). Dopo
più di cinquant'anni dal suo arrivo, l'Artiglieria napoletana si ritira da
Mongiana e non sarà mai più responsabile dello stabilimento. I garibaldini
rimangono due giorni in paese. La mattina del 30 agosto, provenienti da
Monteleone si presentano, con le credenziali di Garibaldi, “i signor Palù
e colonnello Massimino” per prendere in consegna lo stabilimento (107). La
colonna garibaldina si ritira per proseguire l'avanzata verso Napoli dove
Garibaldi entra il 7 settembre, non a cavallo del suo bianco destriero, ma
comodamente seduto in una vettura di un treno su cui è salito a Vietri. Mai
Ferdinando II avrebbe immaginato che quella Napoli-Portici di cui andava tanto
fiero avrebbe riservato tale amarezza al figlio Francesco! Del
Bono e gli ufficiali rimasti alla Mongiana, invitati a sottoscrivere l'atto
formale d'adesione al nuovo governo, sul momento rifiutano, accampando il
pretesto d'essere vincolati dal giuramento prestato a un re ancora in carica,
ma dichiarano di essere disponibili a sottoscriverlo “a cose fatte”, cioè
alla caduta del Regno delle Due Sicilie. Aderiscono invece subito tutti i
civili, e manifestazioni di giubilio sono riservate al colonnello garibaldino.
I
vecchi amministratori illustrano e giustificano punto per punto la contabilità,
la propria gestione, e pretendono che ne sia steso verbale. Precauzione
legittima dal momento che, privo Massimino di una forza militare a disposizione,
prevedono l'impossibilità d'evitare che lo stabilimento venga preso d'assalto
dai mille furti cui lo sottoporranno gli operai che da mesi non vedono assolti i
loro crediti. Massimino trova ogni cosa in ordine, loda sia la precisa
contabilità che la corretta gestione dei borbonici: un po' di convenevoli non
guastano, servono a rompere la pesante atmosfera tra “vincitore” e
“vinti”. Grava però sullo stabilimento un credito di ben 50.000 ducati.
E, come previsto, arrivano le prime avvisaglie del sacco cui sono sottoposti i beni della ferriera, giungono notizie di furti di carbone, di animali introdotti abusivamente al pascolo, di incendi dolosi, di mulattieri in giro per i villaggi a offrire materiali dello stabilimento. Sono segnalati nei boschi gruppi di sbandati in armi. Ottimi profeti gli artiglieri napoletani: Massimino è impossibilitato a colpire i reati contro la proprietà e ad affrontare in campo aperto i gruppi di reazionari in giro per i boschi a fomentare lo scontento. Ci vorrà un bel po' di tempo prima che riesca a costituire la Guardia Nazionale di Mongiana, una forza di 118 uomini tra i più in vista dello stabilimento, corpo più formale che altro. Nonostante la concessione simbolica del grado di ufficiale a qualche testa più calda, la Guardia Nazionale non sarà mai una forza compatta ed amica del nuovo governo. Massimino non poteva iniziare il mandato in modo peggiore. Comunque, dato
fondo agli acconti sul
credito disposti dal governo, riesce a dare continuità al lavoro. Non può però
saldare interamente i debiti ed è costretto a promettere a nome di Vittorio
Emanuele un pronto intervento al quale in cuor suo non crede molto. Egli stesso
è tra incudine e martello. Non è infatti un “piemontese di governo”, ma un
semplice garibaldino di tendenza radicale che spesso irride le gerarchie
“ufficiali”. I suoi modi informali e privi di ossequio verso le
primogeniture liberali, osserva il Cingari, lo porteranno ad alienarsi la nuova
classe politica che non perdonerà al colonnello l'ingerenza in questioni non di
sua competenza.
Massimino
si trova a dover gestire una situazione esasperata dal mancato pagamento dei
salari. E a capo di un paese aizzato, all'alba del Plebiscito d'Annessione, dal
risorto partito borbonico e dai preti pronti a scomunicare i liberali, diavoli
negatori della religione e apportatori di miseria e disonore. Tutto questo soffiare
sul fuoco incendia gli animi: a Pazzano il 5 e 6 ottobre i mulattieri
interpretano lo scontento generale al grido di “Viva Francesco II”. Pochi
giorni dopo, nei boschi compaiono due bande di fuoriusciti, capeggiate la
prima da un ex artigliere fuochista dello stabilimento, formata di soldati
sbandati la seconda. Massimino è costretto a chiedere l'appoggio della
Guardia Nazionale di Serra San Bruno (centro di tendenze liberali al contrario
di molti altri paesi del circondario nei quali l'atmosfera permane prettamente
reazionaria) e riesce a tenere la situazione sotto controllo grazie anche al
concreto intervento di qualche ricco e autorevole proprietario come quel
Francesco Morabito (più tardi Sindaco) che ha anticipato denaro e viveri alla
popolazione.
I
risultati del Plebiscito del 21 ottobre dimostrano il generale malcontento verso
un governo che comincia a far pensare ai mongianesi di essere caduti dalla
padella nella brace. In tutta la provincia di Catanzaro, caratterizzata dalla
vittoria del partito favorevole all'annessione, escono dalle urne 615 “no”
dei quali ben 220 appartengono agli abitanti di Mongiana e Fabbrizia e, caso
rarissimo, in questo collegio la vittoria dei “no” è schiacciante (il
diritto al voto era stabilito in base al censo, ne furono quindi esclusi molti
operai dello stabilimento). E' il primo “contrasto” con quell'Italia che ne
decreterà il lento decadimento. Ma il malcontento è assai più diffuso di
quanto non facciano supporre i voti contrari. Se 220 elettori sono andati a
sfidare in piazza le nuove autorità ed hanno deposto, pubblicamente, nell'urna
la scheda del “no” (di fronte alla Guardia Nazionale schierata!), la maggior
parte ha manifestato il proprio dissenso con l'assenteismo.
Gaetano
Cingari sottolinea come la sconfitta elettorale subita dai liberali, ma senza
prospettive per il ringalluzzito partito reazionario, abbia fatto prendere
alle due fazioni atteggiamenti degni dei tempi d'incertezza in cui viveva la
ferriera. I “politici” della provincia attueranno una manovra di ritorsione
nei confronti di Massimino, capro espiatorio dei liberali in qualità di
“garibaldino”, responsabile diretto della débacle elettorale, reo
di non avere sensibilizzato gli animi ad aderire al nuovo governo. I “borbonici”
faranno apparire il colonnello responsabile del mancato pagamento dei salari,
lesinati dal governo fin quando egli, inviso alle nuove autorità, rimarrà alla
Direzione frapponendosi alla ripresa della normalità. I liberali giocano a
scaricabarile e tentano di togliersi di torno il garibaldino; il partito
borbonico fa un gioco di squadra sterile e stupido al punto che avrà come
conseguenza la destituzione dell'unico “unitario” che ha sinceramente
creduto nel futuro dello stabilimento.
L'anno
si chiude per Mongiana con i bagliori di una violenta sommossa che coglie la
Direzione sguarnita: è il 30 dicembre, Massimino ha momentaneamente lasciato lo
stabilimento per imbarcarsi per Napoli dove spera di mettere le cose in
chiaro. Gli operai scendono in piazza: si è sparsa la falsa notizia di uno
sbarco di borbonici a Pizzo e della risalita di Francesco II al trono. Prendono
d'assalto la sede della Guardia Nazionale, sottraggono una quarantina di
fucili e calpestano il tricolore. Il giorno dopo, di mattina, i più
intraprendenti sequestrano la tromba del capo mulattiere Panucci - con la quale
lo stesso è solito radunare i trasportatori. Dopo i primi squilli l'intera
popolazione si riversa per le strade, inalbera la bandiera bianca col giglio
borbonico e si mette alla caccia dei sostenitori del nuovo regime. La folla
esasperata si reca alla Casa del Comandante, infrange lo stemma sabaudo, scende
alla fonderia, preleva la statua di Francesco II, la porta in processione per
il paese e la colloca nella sua vecchia posizione. Massimino
è raggiunto dalla notizia mentre a Pizzo è in procinto di imbarcarsi. La sua
assenza ha fatto rompere gli argini, ma è per lui segno che la propria presenza
è valsa almeno a tamponare i risentimenti verso il governo debitore delle
paghe. Forte di questo convincimento, trova il coraggio di tornare in paese e
pararsi, solo ed armato, davanti alla folla tumultante. Riesce ad aprire un
dialogo. Poi
scriverà: “Nelli scorsi mesi, varie feste si celebrarono in Mongiana,
per Garibaldi, per Vittorio Emanuele, con musiche, luminarie, fuochi
artificiali e balli. Nessuna donna compariva, il che a me, nuovo in questi
paesi, faceva meraviglia. La mattina del 31, quando insorse il paese al grido di
Francesco II, e con armi onde potevamo temere anche stragi, tutte le donne,
vecchie, giovani, maritate e zitelle, correvano per la città armate di bastoni
e spiedi, furenti come baccanti, gridando abbasso Vittorio Emanuele, Viva
Francesco II ed esse animavano gli uomini ed insultavano fino a stracciare la
barba alla spagnuola ad alcuni che credevano affetti al nuovo governo ” (108). Non
è cosa da poco affrontare la popolazione esasperata al punto che le donne, in
Calabria tradizionalmente relegate in casa, sono le prime ad incitare gli
uomini. Massimino propone ai rivoltosi di nominarsi un portavoce; la scelta cade
sul commerciante De Marco. Alla domanda del colonnello sul perché del grido
corale “Viva don Ciucciu”, con pronto espediente, questi risponde che il destinatario
è don Ciccio (Francesco) Morabito, il proprietario che li ha aiutati a
sopravvivere. Massimino mangia la foglia quando è fin troppo chiaro che il nome
di Morabito è il paravento dietro al quale la folla cela ben altro Francesco. Il
moto, pilotato dai preti, dai reazionari ed alimentato forse dagli stessi
liberali, non ha conseguenze sanguinose grazie alla presenza di spirito del
colonnello. La folla rifluisce alla notizia che le Guardie Nazionali di Serra ed
Arena sono in marcia per sedare la rivolta, e quando comprende che la notizia
dello sbarco borbonico è falsa. Le
uniche conseguenze saranno l'arresto e la condanna di sette fautori della
sommossa e, cosa più grave, l'allontanamento di Massimino “incapace
a provveder la pace”. Il
succcessore di Massimino, l'ex capitano “dei Lavori”, Crescenzo Montagna
assolverà colonnello e folla asserendo che questa chiedeva “pane e non
altro che pane”, perché il governo era in pesante debito con lo
stabilimento, e concluderà la sua difesa con un sintomatico e lapidario “Rassegnerò
io che questo arresto di pagamento sia stato fortuito, e senza secondi
fini?”. Ma non spingerà oltre l'interrogativo perché “sta male
indagare nel santuario dell'altrui coscienza” sapendo di vivere tempi
favorevoli alla manomissione del denaro pubblico (109).
Ma la disillusione più cocente tocca a Massimino che, come tanti
garibaldini, aveva nutrito l'illusione di contribuire alla costruzione di una
nazione migliore e che, tra i primi, invece ha capito di avere offerto ai
“politici” un'orto da razziare. Se il suo comportamento non è mai stato di
quiescenza, l'ultima sua lettera spedita da Mongiana è apertamente critica ed
è lo specchio dell'inganno subìto: “Mi fò dovere
di comunicare alla S.V. Ill.ma il rapporto che trasmetto al Consigliere di
Luogotenenza Incaricato del Dicastero dell'Interno a ciò la S.V. Ill.ma ne
prenda conoscenza per Sua norma e lo faccia pervenire prontamente all'Autorità
superiore, perché i racconti che si spediscono non spandano in Napoli idee
affatto false ed erronee. Prego
la S.V. Ill.ma a voler prendere informazioni esatte da tutte le autorità di
questi contorni, e rapportare il Governo in che modo io mi comportai in questi
frangenti. Il Governo deve conoscere che esiste in tutto il Regno una rete
reazionaria tesa, e che forse doveva in un istante involgere il paese in un lago
di sangue. Io, per parte mia, feci conoscere da due mesi ai miei superiori a cui
primi incombe rivelarla al Governo. Io chiamai il cambio di quelli che ora
l'opinione pubblica segnala come centri dirigenti. Nulla si fece; nessuno di noi
è responsabile. Il Governo negò il denaro che doveva. I creditori non
avendo altro titolo si rivolsero a Francesco II. Io promisi a nome di Vittorio
Emanuele, ma le mie parole furono smentite, forse perché io venivo qui mandato
da Garibaldi. Mi
vanto di una missione ricevuta dal primo cittadino d'Italia. Finché Egli comandò
in Napoli non vi fu sintomo di reazione. Esso partito e scacciati i suoi
ufficiali dal Ministero Piemontese il fuoco della reazione si accese. Io partirò
a giorni perché garibaldino, ma dichiaro come Sindaco alla S.V. Ill.ma che se
succederanno reazioni, ne sarà responsabile in faccia al Parlamento
quell'autorità che non avrà saputo far conoscere le condizioni reali del
paese” (110). Anche questa volta ha scavalcato le gerarchie e s'è rivolto molto più in alto di quanto avesse dovuto, e potuto, confermando l'indocilità del proprio carattere e decretando la propria fine politica. Il personaggio Massimino è però imprevedibile e darà ancora filo da torcere: decide di presentarsi, candidato del partito radicale del collegio di Serra, alle elezioni del primo Parlamento italiano per combattere dall'interno del sistema quanto non gli è riuscito di contrastare dall'esterno, ma è già marchiato come indesiderabile. Alle elezioni, che pur alla prima tornata lo vedono vincitore sul suo antagonista, avvocato Vito Doria, le fazioni politiche si chiuderanno nella votazione di ballottaggio intorno al “moderato” avvocato, ed estrometteranno dalla Camera l'unico che avrebbe saputo fare ascoltare la voce dei mongianesi e dello stabilimento (111). |
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