Le
Reali Ferriere ed Officine di Mongiana |
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Capitolo 1 (11°) Storia Inaugurazione della Ferdinandea, fonderia succursale di Mongiana Nel
1833, Ferdinando II visita la Calabria e s'inerpica fino a Serra S.Bruno con
tutto il suo numeroso ed eterogeneo seguito. Da Serra, dopo la tradizionale
messa di benvenuto, riparte per le ferriere. Non è Mongiana la sola meta del
viaggio: con la sua corte il re è in procinto d'inaugurare la Ferdinandea,
interessante connubio tra casino di caccia e ferriera: minuscola cittadella dove
vivono in simbiosi altiforni, caserme, stalle, chiesa ed appartamenti reali.
La Ferdinandea resta quindi nella tradizione borbonica che vuole Carditello e
S.Leucio dotate di appartamenti reali e vicine alla reggia di Caserta, che vorrà
Pietrarsa tra le regge di Napoli e di Portici: tutte imprese industriali
guardate a vista dal “padrone”. La
Ferdinandea è uno stabilimento di prima fusione; è di supporto alla Mongiana
che dista qualche decina di chilometri; la fonderia è situata al centro
dell'antico Bosco di Stilo, alle pendici estreme del Monte Pecoraro. Dipende
dalla Direzione di Mongiana e l'Artiglieria vi mantiene un distaccamento agli
ordini di un capitano. La vicinanza alle miniere di Pazzano ridurrà
notevolmente i costi di produzione della ghisa; per il combustibile non v'è
alcun problema: l'enorme faggeta del ricresciuto Bosco Demaniale di Stilo
fornirà il carbone necessario; essa è tutelata dalla legge forestale emanata
nel 1826 e fatta osservare dalle sette Guardie forestali in forza allo
stabilimento. Se
il processo di gemmazione di questa succursale di Mongiana è chiaro, le sue
origini, alla pari di quelle della casa madre, sono state a lungo oscure. La
data dell'insediamento iniziale è vaga; autori come il Tedeschi appaiono poco
credibili (collocano la fondazione nel 1783). Dall'analisi dei capitolati
d'appalto e dalla descrizione dei lavori eseguiti dai napoleonici nel 1814,
per riattare le “vecchie e dirute ferriere di Stilo”, si può
avanzare un'ipotesi forse più precisa. Sull'area
di un preesistente impianto, probabilmente abbandonato all'epoca del secondo
Conty, l'artiglieria napoleonica aveva costruito, su indicazione della
commissione murattiana, un vasto locale capace di contenere sia altiforni che
forge d'affinazione: concetto modernissimo per l'epoca, la cui realizzazione era
stata purtroppo bloccata, alla caduta del regno di Murat, prima del
completamento dei forni ma dopo l'ultimazione della fabbrica. Il ristagno
post-murattiano aveva impedito il seguito della iniziativa, ma nel 1822, quando
nel Regno s'avverte un'inversione di tendenza e quando gli altiforni di
Mongiana sono affetti da inequivocabile vecchiaia, si pensa di sfruttare il
locale già pronto e di affiancargli una residenza reale. Nella grande fabbrica,
predisposta per più forni e forge, si erige un solo altoforno dalle dimensioni
inusitate: il Sant'Antonio, di undici metri d'altezza e tre di diametro,
rivestito internamente di steatite quarzifera proveniente da giacimenti locali (87). La
fonderia ha un impianto razionale: le fasi lavorative sono distribuite a vari
livelli; è suscettibile di ulteriori ampliamenti. Nel 1860 infatti, quando ne
sarà decretata la chiusura, si stava per ultimare la costruzione di un secondo
forno cilindrico di tipo inglese, gemello di quelli costruiti a Mongiana tra il
1854 e il 1856. Il
Sant'Antonio ha la tradizionale forma a parallelepipedo ed è ventilato da
trombe identiche a quelle di Mongiana. Tutto il complesso è azionato
dall'acqua riunita di tre canali artificiali che convogliano tre torrenti: la “confluenza
di tre ruscelli” delle conclusioni della commissione
Ritucci-Melograni-Paolotti. La
prima campagna fusiva è del 1833-34, dura cinque mesi, quanti ne concede la
piena dei corsi d'acqua. Il prodotto dell'altoforno è considerevole: circa 5000
cantaia l'anno. Unico neo, subito manifesto, la carenza di collegamenti viari
tra fonderia, miniere di Pazzano, Mongiana e il mare. La polemica Zino-Del Re,
sollevata lo stesso anno, costituirà un forte stimolo all'apertura di nuove
strade, nonché alla conversione degli impianti siderurgici dell'area
napoletana all'uso delle litantraci ed all'esplotazione dei presunti bacini
carboniferi del Regno. Intorno
alla metà degli anni trenta, accuse molto limitate possono essere rivolte alla
qualità del ferro mongianese adoperato per la fabbricazione delle armi, non
altrettanto, come sostengono vivacemente Zino e il socio francese, alla qualità
della ghisa e all'efficienza della rete di distribuzione. Il divario tra
siderurgia nazionale e straniera è evidentemente ancora ampio. Prima
a reagire concretamente sarà la Giunta dei Generali, le cui richieste, avanzate
dal Comandante in capo l'Artiglieria generale D'Escamard, ottengono lo
stanziamento al Ministro della Guerra, generale Filangieri, di 60.000 ducati da
investire nella costruzione di strade, nuove ferriere di dolcificazione, e
sviluppo e ammodernamento delle miniere. Non ci si sottrae al confronto con la
siderurgia straniera e ci si impegna in un forcing per impadronirsi delle
tecniche più avanzate, segnalate altrove. 1839:
incarico al capitano D'Agostino e all'allievo fonditore Panzera di andare a
carpire i nuovi sistemi in uso all'estero. Il compito, in un certo senso, è
analogo a quello espletato dai mineralogisti nel 1789: se non è possibile
colmare il divario si può accorciare senz'altro la distanza che divide la
siderurgia nazionale dalla straniera. Partiti
da Napoli, i due eliminano dall'indagine l'Inghilterra dove l'uso del coke è la
causa evidente della supremazia qualitativa delle ghise inglesi. Lo
“spionaggio” inizia dalla Francia, che non ha abbracciato del tutto il
partito del carbon fossile e non ha abbandonato l'uso del carbone vegetale, il
cui ferro, di grana acciarina, in media tra l'inglese e il napoletano, è ottimo
per qualunque tipo di lavorazione. In Francia D'Agostino e Panzera visitano gli
impianti statali di Rouel e S.Gervais, quelli privati di Tambourneau e Paranche;
vanno alla grande fonderia militare di Newers che adopera indifferentemente
ghise statali e private, annotano la qualità dei minerali ridotti negli
altiforni. Esaminano tutto, “fotografano” con schizzi, prendono appunti e
tornano in patria con campioni di ferro, marne, argille e minerali. Facendoci
reciproca grazia, evitiamo la lunga disamina presentata dal D'Agostino al
Filangieri (88). In breve, quanto s'andava facendo
nelle ferriere francesi poteva essere ripetuto dalla ferriera calabrese a patto
di seguire alcune regole basilari. Il rapporto si chiudeva con il suggerimento
di fare osservare, per quanto possibile, le stesse tecnologie allo
stabilimento di Mongiana in maniera che la ghisa prodottavi riuscisse simile a
quella che i francesi chiamavano “truitée” (89). A
capo della Mongiana, nel 1839 è il ten.colonnello Niola il quale, da quanto
risulta dal regio rescritto del 29 luglio di quell'anno, dirige il lavoro di 742
operai, distribuiti tra Mongiana, Ferdinandea e Pazzano (90).
Al Niola è trasmesso l'ordine di mettere in pratica quanto osservato in
Francia. Il colonnello provvede a far caricare un primo altoforno con minerali
non sottoposti a lavamento e, ottenutane la riduzione, osserva che anche il 25%
di minerali, sempre perduti in quella preliminare operazione, produce il 40% di
ferro acre. Inoltre, eliminato il lavaggio, erroneamente ritenuto
indispensabile, è possibile recuperare tempi morti e diminuire i costi di
lavoro. Il nuovo metodo abbrevia i tempi di messa in fuoco grazie alla scomparsa
della percentuale d'acqua in precedenza introdotta nei forni da minerali non
perfettamente asciutti. Mentre con il vecchio sistema cinque some di carbone
bastavano a ridurre appena cinque cantaia di minerale, con il nuovo è possibile
fonderne cinque e trenta rotoli. Non
soddisfatto del già discreto risultato, Niola passa a controllare la potenza
dei fondenti visti in azione in Francia da D'Agostino e Panzera. Ordina di
caricare un secondo altoforno con cinque some di carbone, cinque cantaia e mezzo
di minerale, mezzo cantaio di un miscuglio composto da 9/10 di calce carbonata
grafica e 1/10 di scorie d'andamento. Il
risultato gli sembra buono, il prodotto in effetti si presenta più depurato;
Niola spedisce tutto al D'Agostino, nominato “Istitutore” della nuovissima
fonderia aperta a Napoli sotto gli spalti delle torri occidentali di Castel
Nuovo, nella quale è impiegato anche Panzera (91).
Esaminati e rifusi i saggi nei forni a riverbero della fonderia napoletana, i
due constatano i progressi fatti, ma asseriscono che è necessario fare di
meglio perché il primo saggio presenta evidente discontinuità molecolare,
difetto che attribuiscono al troppo rapido raffreddamento e alle ridotte dimensioni
dei pani, mentre il secondo, più purificato, non ha la grana desiderata,
caratteristica che riscontrano in un'altra quarantina di saggi inviati da
Mongiana. Per evitare discussioni sulle dimensioni opportune al corretto
raffreddamento, da Napoli è inviato alla ferriera calabrese un modello dei pani
richiesti e finalmente, pur tra serrate dispute tra D'Agostino e i fonditori
calabresi, la Mongiana riesce a sfornare la qualità indicata. Le prerogative
del nuovo prodotto sono adatte a trasformarlo in ottimo ferro. In
questa occasione si chiarisce una volta per tutte, grazie alle osservazioni
fatte in Francia, che è il carbone di faggio, esente da residui inquinanti, il
fattore determinante della purezza del ferro mongianese (cosa già nota in
Francia, Svezia, Inghilterra e Sassonia, ma non ancora nel meridione d'italia). Possedere
vaste estensioni di faggeta costituisce per ora il grosso vantaggio della
ferriera calabrese, ma a lungo andare diventerà il limite che, ancora una
volta, decreterà la non competività del suo ferro sui mercati. Purtroppo,
mentre tutte le fonderie del napoletano adottano il coke, la Mongiana rimane
ancorata al carbone vegetale che le permette, per ora, di spuntare prezzi concorrenziali. In
campo produttivo si registra un incremento notevole: Ferdinandea e Mongiana
producono una quantità di ghisa calcolabile in 18.000 cantaia l'anno. Metà è
rifusa nelle rimodernate ferriere sparse lungo l'Alaro, il resto è spedito in
pani alle fonderie del napoletano e in lastre alle manifatture militari di
Poggioreale e Torre.
Oltre
al tipico assortimento militare (carronate da marina, cannoni da piazza,
affusti, proiettili, lastre per fucili e armi bianche) la Mongiana mette “in
catarogo” una nuova gamma di prodotti. La più ampia attrezzatura offre la
possibilità di eseguire con il ferro migliorato lavori tentati solo dalle
metalmeccaniche dell'area napoletana e che anche negli stabilimenti di nazioni
all'avanguardia non raggiungono ancora la dovuta perfezione. Si tratta del
tentativo di fabbricazione di materiale ferroviario, per il quale il macchinario
principale è già stato installato a Pietrarsa, che Ferdinando in persona si
toglie il gusto di commettere alla ferriera calabrese. Mongiana produce così
varie coppie di cilindri scanalati, caldaie, ruote dentate e altri meccanismi di
difficile esecuzione: è una risposta diretta a Zino e compagni.
In
seguito, saranno i militari, in una serrata quanto sterminata corrispondenza, a
dimostrare, dati alla mano, la convenienza dei prodotti mongianesi e a confutare
le ormai generiche accuse, ancora rivolte sul ricordo della polemica del 1834,
demolendole sulla base dell'evidenza. Dimostreranno la superiorità degli attrezzi
da marina, ancore, grosse catene, tubi, docce, pompe, stufe, busti per monumenti
e, da buoni managers, con un pizzico di legittima autopubblicità dopo
l'incessante pioggia d'attacchi denigratori, si fregieranno delle perfette
fusioni delle travi da getto occorse per il ponte Cristina disteso sul Calore. Disparati
e complessi i problemi affrontati dai militari in questo periodo, non ultimi
quelli legati all'assetto dell'area urbana e ristrutturazione delle fabbriche. Risulta impossibile, allo stato attuale degli studi su Mongiana, seguire passo per passo la crescita del paese, ma un indizio concreto di quanto rapido e tumultuoso sia stato lo sviluppo edilizio, intorno agli anni quaranta, è messo in evidenza dalla crescita dello staff dirigente dello stabilimento. |
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