Le Reali Ferriere      

ed Officine di  Mongiana

 

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Prefazione

Introduzione

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Tavola Misure Regno delle Due Sicilie

Indice Appendice

Real Decreto e Regolamento

Bibliografia

Bibliografia generale

Indice delle abbreviazioni

Indice delle note

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Capitolo 1  

(11°)

Storia

Inaugurazione della Ferdinandea, fonderia succursale di Mongiana

Nel 1833, Ferdinando II visita la Calabria e s'inerpica fino a Serra S.Bruno con tutto il suo numeroso ed eterogeneo seguito. Da Serra, dopo la tradizionale messa di benvenuto, riparte per le ferriere. Non è Mongiana la sola meta del viaggio: con la sua corte il re è in procinto d'inaugurare la Ferdinandea, interessante connubio tra casino di caccia e ferriera: minuscola cittadella dove vivono in simbiosi altiforni, caserme, stalle, chiesa ed apparta­menti reali. La Ferdinandea resta quindi nella tradizione borbo­nica che vuole Carditello e S.Leucio dotate di appartamenti reali e vicine alla reggia di Caserta, che vorrà Pietrarsa tra le regge di Napoli e di Portici: tutte imprese industriali guardate a vista dal “padrone”.

La Ferdinandea è uno stabilimento di prima fusione; è di supporto alla Mongiana che dista qualche decina di chilometri; la fonderia è situata al centro dell'antico Bosco di Stilo, alle pendici estreme del Monte Pecoraro. Dipende dalla Direzione di Mongiana e l'Ar­tiglieria vi mantiene un distaccamento agli ordini di un capitano. La vicinanza alle miniere di Pazzano ridurrà notevolmente i costi di produzione della ghisa; per il combustibile non v'è alcun pro­blema: l'enorme faggeta del ricresciuto Bosco Demaniale di Stilo fornirà il carbone necessario; essa è tutelata dalla legge forestale emanata nel 1826 e fatta osservare dalle sette Guardie forestali in forza allo stabilimento.

Se il processo di gemmazione di questa succursale di Mongiana è chiaro, le sue origini, alla pari di quelle della casa madre, sono state a lungo oscure. La data dell'insediamento iniziale è vaga; autori come il Tedeschi appaiono poco credibili (collocano la fon­dazione nel 1783). Dall'analisi dei capitolati d'appalto e dalla de­scrizione dei lavori eseguiti dai napoleonici nel 1814, per riattare le “vecchie e dirute ferriere di Stilo”, si può avanzare un'ipotesi forse più precisa.

Sull'area di un preesistente impianto, probabilmente abbandona­to all'epoca del secondo Conty, l'artiglieria napoleonica aveva costruito, su indicazione della commissione murattiana, un vasto locale capace di contenere sia altiforni che forge d'affinazione: concetto modernissimo per l'epoca, la cui realizzazione era stata purtroppo bloccata, alla caduta del regno di Murat, prima del completamento dei forni ma dopo l'ultimazione della fabbrica. Il ristagno post-murattiano aveva impedito il seguito della iniziativa, ma nel 1822, quando nel Regno s'avverte un'inversione di ten­denza e quando gli altiforni di Mongiana sono affetti da inequi­vocabile vecchiaia, si pensa di sfruttare il locale già pronto e di affiancargli una residenza reale. Nella grande fabbrica, predispo­sta per più forni e forge, si erige un solo altoforno dalle dimen­sioni inusitate: il Sant'Antonio, di undici metri d'altezza e tre di diametro, rivestito internamente di steatite quarzifera proveniente da giacimenti locali (87).

La fonderia ha un impianto razionale: le fasi lavorative sono di­stribuite a vari livelli; è suscettibile di ulteriori ampliamenti. Nel 1860 infatti, quando ne sarà decretata la chiusura, si stava per ultimare la costruzione di un secondo forno cilindrico di tipo inglese, gemello di quelli costruiti a Mongiana tra il 1854 e il 1856.

Il Sant'Antonio ha la tradizionale forma a parallelepipedo ed è ventilato da trombe identiche a quelle di Mongiana. Tutto il com­plesso è azionato dall'acqua riunita di tre canali artificiali che convogliano tre torrenti: la “confluenza di tre ruscelli” delle con­clusioni della commissione Ritucci-Melograni-Paolotti.

La prima campagna fusiva è del 1833-34, dura cinque mesi, quanti ne concede la piena dei corsi d'acqua. Il prodotto dell'altoforno è considerevole: circa 5000 cantaia l'anno. Unico neo, subito ma­nifesto, la carenza di collegamenti viari tra fonderia, miniere di Pazzano, Mongiana e il mare. La polemica Zino-Del Re, sollevata lo stesso anno, costituirà un forte stimolo all'apertura di nuove strade, nonché alla conversione degli impianti siderurgici dell'a­rea napoletana all'uso delle litantraci ed all'esplotazione dei pre­sunti bacini carboniferi del Regno.

Intorno alla metà degli anni trenta, accuse molto limitate possono essere rivolte alla qualità del ferro mongianese adoperato per la fabbricazione delle armi, non altrettanto, come sostengono viva­cemente Zino e il socio francese, alla qualità della ghisa e al­l'efficienza della rete di distribuzione. Il divario tra siderurgia na­zionale e straniera è evidentemente ancora ampio.

Prima a reagire concretamente sarà la Giunta dei Generali, le cui richieste, avanzate dal Comandante in capo l'Artiglieria generale D'Escamard, ottengono lo stanziamento al Ministro della Guerra, generale Filangieri, di 60.000 ducati da investire nella costruzione di strade, nuove ferriere di dolcificazione, e sviluppo e ammo­dernamento delle miniere. Non ci si sottrae al confronto con la siderurgia straniera e ci si impegna in un forcing per impadronirsi delle tecniche più avanzate, segnalate altrove.

1839: incarico al capitano D'Agostino e all'allievo fonditore Pan­zera di andare a carpire i nuovi sistemi in uso all'estero. Il com­pito, in un certo senso, è analogo a quello espletato dai mine­ralogisti nel 1789: se non è possibile colmare il divario si può accorciare senz'altro la distanza che divide la siderurgia nazionale dalla straniera.

Partiti da Napoli, i due eliminano dall'indagine l'Inghilterra dove l'uso del coke è la causa evidente della supremazia qualitativa delle ghise inglesi. Lo “spionaggio” inizia dalla Francia, che non ha abbracciato del tutto il partito del carbon fossile e non ha abbandonato l'uso del carbone vegetale, il cui ferro, di grana acciarina, in media tra l'inglese e il napoletano, è ottimo per qualunque tipo di lavorazione. In Francia D'Agostino e Panzera visitano gli impianti statali di Rouel e S.Gervais, quelli privati di Tambourneau e Paranche; vanno alla grande fonderia militare di Newers che adopera indifferentemente ghise statali e private, an­notano la qualità dei minerali ridotti negli altiforni. Esaminano tutto, “fotografano” con schizzi, prendono appunti e tornano in patria con campioni di ferro, marne, argille e minerali.

Facendoci reciproca grazia, evitiamo la lunga disamina presen­tata dal D'Agostino al Filangieri (88). In breve, quanto s'andava fa­cendo nelle ferriere francesi poteva essere ripetuto dalla ferriera calabrese a patto di seguire alcune regole basilari. Il rapporto si chiudeva con il suggerimento di fare osservare, per quanto pos­sibile, le stesse tecnologie allo stabilimento di Mongiana in ma­niera che la ghisa prodottavi riuscisse simile a quella che i fran­cesi chiamavano “truitée” (89).

A capo della Mongiana, nel 1839 è il ten.colonnello Niola il quale, da quanto risulta dal regio rescritto del 29 luglio di quell'anno, dirige il lavoro di 742 operai, distribuiti tra Mongiana, Ferdinandea e Pazzano (90). Al Niola è trasmesso l'ordine di mettere in pratica quanto osservato in Francia. Il colonnello provvede a far caricare un primo altoforno con minerali non sottoposti a lavamento e, ottenutane la riduzione, osserva che anche il 25% di minerali, sempre perduti in quella preliminare operazione, produce il 40% di ferro acre. Inoltre, eliminato il lavaggio, erroneamente ritenuto indispensabile, è possibile recuperare tempi morti e diminuire i costi di lavoro. Il nuovo metodo abbrevia i tempi di messa in fuoco grazie alla scomparsa della percentuale d'acqua in prece­denza introdotta nei forni da minerali non perfettamente asciutti. Mentre con il vecchio sistema cinque some di carbone bastavano a ridurre appena cinque cantaia di minerale, con il nuovo è pos­sibile fonderne cinque e trenta rotoli.

Non soddisfatto del già discreto risultato, Niola passa a con­trollare la potenza dei fondenti visti in azione in Francia da D'A­gostino e Panzera. Ordina di caricare un secondo altoforno con cinque some di carbone, cinque cantaia e mezzo di minerale, mezzo cantaio di un miscuglio composto da 9/10 di calce car­bonata grafica e 1/10 di scorie d'andamento.

Il risultato gli sembra buono, il prodotto in effetti si presenta più depurato; Niola spedisce tutto al D'Agostino, nominato “Istitu­tore” della nuovissima fonderia aperta a Napoli sotto gli spalti delle torri occidentali di Castel Nuovo, nella quale è impiegato anche Panzera (91). Esaminati e rifusi i saggi nei forni a riverbero della fonderia napoletana, i due constatano i progressi fatti, ma asseriscono che è necessario fare di meglio perché il primo sag­gio presenta evidente discontinuità molecolare, difetto che at­tribuiscono al troppo rapido raffreddamento e alle ridotte dimen­sioni dei pani, mentre il secondo, più purificato, non ha la grana desiderata, caratteristica che riscontrano in un'altra quarantina di saggi inviati da Mongiana. Per evitare discussioni sulle dimen­sioni opportune al corretto raffreddamento, da Napoli è inviato alla ferriera calabrese un modello dei pani richiesti e finalmente, pur tra serrate dispute tra D'Agostino e i fonditori calabresi, la Mongiana riesce a sfornare la qualità indicata. Le prerogative del nuovo prodotto sono adatte a trasformarlo in ottimo ferro.

In questa occasione si chiarisce una volta per tutte, grazie alle osservazioni fatte in Francia, che è il carbone di faggio, esente da residui inquinanti, il fattore determinante della purezza del ferro mongianese (cosa già nota in Francia, Svezia, Inghilterra e Sas­sonia, ma non ancora nel meridione d'italia).

Possedere vaste estensioni di faggeta costituisce per ora il gros­so vantaggio della ferriera calabrese, ma a lungo andare diventerà il limite che, ancora una volta, decreterà la non competività del suo ferro sui mercati. Purtroppo, mentre tutte le fonderie del napoletano adottano il coke, la Mongiana rimane ancorata al car­bone vegetale che le permette, per ora, di spuntare prezzi con­correnziali.

In campo produttivo si registra un incremento notevole: Ferdinandea e Mongiana producono una quantità di ghisa calcolabile in 18.000 cantaia l'anno. Metà è rifusa nelle rimodernate ferriere sparse lungo l'Alaro, il resto è spedito in pani alle fonderie del napoletano e in lastre alle manifatture militari di Poggioreale e Torre.

[fig.23]

Ferdinandea.

 

Oltre al tipico assortimento militare (carronate da marina, cannoni da piazza, affusti, proiettili, lastre per fucili e armi bianche) la Mongiana mette “in catarogo” una nuova gamma di prodotti. La più ampia attrezzatura offre la possibilità di eseguire con il ferro migliorato lavori tentati solo dalle metalmeccaniche dell'area napoletana e che anche negli stabilimenti di nazioni all'avan­guardia non raggiungono ancora la dovuta perfezione. Si tratta del tentativo di fabbricazione di materiale ferroviario, per il quale il macchinario principale è già stato installato a Pietrarsa, che Ferdinando in persona si toglie il gusto di commettere alla fer­riera calabrese. Mongiana produce così varie coppie di cilindri scanalati, caldaie, ruote dentate e altri meccanismi di difficile esecuzione: è una risposta diretta a Zino e compagni.

[fig.24]

Artiglieri al pezzo. Da “Tavole pel progetto di ordinanza di S.M. il Re del Regno delle Due Sicilie per l’esercizio e manovre di Artiglieria”. Napoli, 1835.

In seguito, saranno i militari, in una serrata quanto sterminata corrispondenza, a dimostrare, dati alla mano, la convenienza dei prodotti mongianesi e a confutare le ormai generiche accuse, ancora rivolte sul ricordo della polemica del 1834, demolendole sulla base dell'evidenza. Dimostreranno la superiorità degli attrez­zi da marina, ancore, grosse catene, tubi, docce, pompe, stufe, busti per monumenti e, da buoni managers, con un pizzico di legittima autopubblicità dopo l'incessante pioggia d'attacchi denigratori, si fregieranno delle perfette fusioni delle travi da getto occorse per il ponte Cristina disteso sul Calore.

Disparati e complessi i problemi affrontati dai militari in questo periodo, non ultimi quelli legati all'assetto dell'area urbana e ri­strutturazione delle fabbriche.

Risulta impossibile, allo stato attuale degli studi su Mongiana, seguire passo per passo la crescita del paese, ma un indizio concreto di quanto rapido e tumultuoso sia stato lo sviluppo edilizio, intorno agli anni quaranta, è messo in evidenza dalla crescita dello staff dirigente dello stabilimento.

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