Le
Reali Ferriere ed Officine di Mongiana |
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Capitolo 1 (9°) Storia Sotto Ferdinando II: rafforzamento della siderurgia statale e nuovo incremento 1830:
sale al trono di Napoli Ferdinando II, re che darà impulso alla vita civile ed
economica del paese. Il suo avvento alla guida del Regno coincide con il
riassetto delle strutture statali, con il rilancio della agricoltura, e la messa
a coltura di terreni e pascoli improduttivi. Impulsi maggiori si riscontrano
nelle istituzioni militari, nel commercio e soprattutto nelle industrie
statali e private. Nelle sue idee è assecondato dalla nascente borghesia imprenditoriale
e dall'ala più avanzata della nobiltà. L'oramai
consolidata stabilità politica, la vigile amministrazione (più snella, meno
burocratica e pedante di quanto siamo abituati ad immaginarla dalle ripetute
accuse dei “piemontesi” i quali rivelarono poi una burocrazia meno
flessibile), la stabilità della moneta, l'accorta politica economica e
finanziaria con i ben noti dazi protettivi, il potenziale mercato di consumatori
ed una mano d'opera largamente disponibile, stimolano molti imprenditori locali
e stranieri ad investire capitali in nuove attività nel Regno. A
fianco alle preesistenti manifatture sorgono un po' dappertutto nuovi opifici.
Prime a nascere erano state le industrie tessili, sulla base della tradizione
artigianale seicentesca e settecentesca. Senza
ricorrere all'arcinoto episodio San Leucio, riportato in genere come
“simbolo” dell'industria meridionale, basterà ricordare un'altra industria
tessile situata a pochissimi chilometri dalla cittadella della seta. Questa è
una vera “fabbrica”, non curata come raro fiore da serra, ma sfruttata in
modo imprenditoriale: il cotonificio Hegg, a Piedimonte d'Alife, impiantato con
concetti “moderni”, cioè speculativi, fondato in epoca napoleonica dallo
zurighese Johan J. Hegg. Lo stabilimento lavorava cotone, materia assai meno
nobile della seta ma di più larga diffusione (84). Nei
primi decenni unitari, una più profonda conoscenza della storia industriale del
Mezzogiorno - o una semplice casistica sulla sua entità - avrebbe potuto
controbattere la faziosa accusa di parte liberale, che vedeva l'industria
meridionale “debole e circoscritta” all'area più strettamente napoletana.
Tale accusa, invece di stimolarne il potenziamento, decretò la chiusura delle
“poche” industrie esistenti; invece di creare le premesse per lo sviluppo,
offrì l'alibi per lo smantellamento totale della siderurgia meridionale. Certo
il napoletano conteneva il concentramento industriale maggiore, esso era però
la culla più adatta allo sviluppo nascente perché la tradizione artigianale
locale era l'unico tronco pronto all'innesto della linfa “industria”,
evitando lunghe preliminari attività didattiche per maestranze del tutto
impreparate. La lunga sofferenza patita da Mongiana prima di riuscire a sfornare
prodotti validi è eloquente commento all'impossibilità di costruire in tempi
brevi un'industria nel deserto. Con
un salto di decenni, i concentramenti industriali italiani avranno sede nei
vertici del “triangolo” che starà all'italia come il napoletano stava al
meridione; nel triangolo si registreranno capacità imprenditoriali che in
embrione erano presenti nel napoletano. D'altro canto l'industria del Sud non
era nè esigua, nè concentrata; la Mongiana era un esempio di decentramento cui
si univano le industrie del salernitano, la manifatturiera della Valle del Liri,
l'attività agricola pugliese, l'estrattiva siciliana e tante altre. Come
interpretarne allora lo smantellamento e come decifrare quella forzata
emigrazione verso ghetti alieni cui furono sottoposti poi i meridionali, se
non come una rapina avallata da principi economici validi solo per il Nord e
strumentalizzati da coloro che, saltati per primi sul treno del “siamo tutti
italiani”, percossero la grancassa del “saremo una nazione, una”, ma che
si guardarono dal dire che in quella nazione vi sarebbero stati cittadini di
serie A, altri di B, altri ancora degni della serie C. Si
fece insomma un'italia a vari gironi e ancor'oggi ognuno milita nel suo.
Militanti di serie B, da sfruttare come muli, furono, dopo l'Unità, molti
mongianesi costretti ad emigrare alla fabbrica d'armi di Terni. A Terni, dove
la stessa Italia, lo stesso ceto dirigente che a parole ha deplorato il mancato
decentramento, la mancanza di tessuto connettivo, e deprecato la posizione
isolata della Mongiana - in montagna, non sul mare come avrebbero voluto le
leggi della nuova siderurgia - costruisce, tra il 1873 e l'84, una grande
siderurgica, spendendo molto di più di quanto sarebbe bastato alla ferriera
calabrese per essere rimessa in sesto. E Terni non è città marina o di bassa
pianura, anche se con le sue cascate era un luogo adatto a quel tipo
d'insediamento. Ma perché chiudere i rubinetti d'alimentazione alla
siderurgia meridionale ed aprire l'erogazione delle commesse solo alla ligure? Giolitti
si permetterà una battuta cinica e dirà che il Sud non lo aveva inventato lui.
Però non fece nulla per sciogliere il nodo creato dai suoi predecessori,
sostenuti in Parlamento dai loro caudatari meridionali i quali fecero del
proprio paese un serbatoio di voti. Con Giolitti, l'emigrazione diventerà un
fenomeno rilevante, le rimesse degli emigrati saranno utilissime per
“concentrare” il capitale industriale ligure e piemontese. Cosicché, sulla scia dei mongianesi, figli primogeniti dell'emigrazione industriale italiana, i militanti di serie C presero la via dell'estero; quelli in attesa di “promozione” restarono nei paesi meridionali a tirare la cinghia. Quelli stanchi di aspettare, ancor'oggi, vanno a “giocare” all'estero. |
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