Le
Reali Ferriere ed Officine di Mongiana |
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Capitolo 1 (2°) Storia La
concessione di Ruggero il Normanno è riportata in un manoscritto redatto dal
Padre D.B.Tromby, autore della storia cronologica del santo Brunone fondatore
dell'Ordine dei Certosini: “...
item concedo eidem ecclesiae eremi in reliqua terra mea usum liberum minerarum
aeris et ferri... ” (5). Il
Conte Ruggero concede al Santo, sul finire del secolo XI, lo sfruttamento di
miniere che sono evidentemente già aperte ed esplotate; la cosa non sorprende
poiché è nota, in tempi ancora più remoti, la presenza in Calabria di
fonderie fenice. Se
un'indubbia influenza ha sul Normanno la parola del Santo venuto dalla Francia a
ritirarsi in romitaggio nei boschi della futura Serra, non si può sottovalutare
l'accortezza politica della donazione: tutti i re normanni largheggeranno in
concessioni ai religiosi e ai loro ordini monastici, al fine di tenere a freno
le recalcitranti popolazioni da poco sottomesse. Grande è sul popolo
l'influenza dell'elemento ecclesiastico, soprattutto nella zona in questione
dove, oltre Serra, Stilo annovera numerosi e potenti ordini religiosi (6).
All'ascesa al trono di un nuovo re, puntualmente come da cerimoniale, le
precedenti donazioni sono confermate e in qualche caso addirittura aumentate.
Nel 1173, Guglielmo Re di Sicilia aggiunge: “... et libertatibus minerae
aeris et ferri...” concedendo alla Certosa centodieci contadini e un
mulino “in pertinentiis Stili” (7). Nessuna
notizia sotto gli Svevi, causa la totale distruzione dei loro registri di
concessione. Nell'intento di cancellare il ricordo degli Hoenstaufen, Carlo d'Anjou
ordina la distruzione di ogni documento relativo al periodo svevo. Il tentativo
di rimuovere dalle memorie Federico II, i suoi discendenti Manfredi e
Corradino, non gli riuscirà per l'odio viscerale verso i “francesi” e per
il seguito popolare di casa sveva, che costerà agli angioini le giornate dei
Vespri, ma gli riesce di cancellare il ricordo delle attività delle miniere. Le
miniere di Pazzano, durante gli “slanci industriali” voluti da Roberto d'Anjou,
sono rivalutate; Roberto riprende lo sfruttamento del sottosuolo calabrese; un
rescritto del 1333 fa cenno al lavoro nelle gallerie del Monte Stella. Lo stesso
documento ricorda che dal 1314 è in funzione a Pazzano una ferriera di proprietà
del convento di Serra S.Bruno. Da un precedente rescritto risultano riattivate a
Pazzano e Stilo altre due miniere sulle quali il re si riserva diritti speciali
di sfruttamento. Miniere
e ferriere sono amministrate da “arrendatari” i quali le hanno a mezzadria
con il convento e con il re, le hanno in concessione e pagano a questi le
“rendite” in danaro e manufatti. Questa
industria meridionale - se così ci è concesso chiamarla - continua la sua
attività fino alla seconda metà del secolo XV, quando decade in conseguenza di
ingenti importazioni di ferri triestini e toscani, privilegiati rispetto ai
locali dalla presenza nel regno di cospicui capitali fiorentini e genovesi. Un
colpo mortale le verrà poi inferto dai proibitivi dazi imposti da Ferdinando d'Aragona
all'estrazione, lavorazione e commercio del ferro grezzo (8). Decaduta,
rimane pressocché inattiva fino al regno di Carlo V. La ferriera di Stilo nel
1520 è inattiva (9)
e le miniere, quasi del tutto abbandonate, forniscono scarso materiale
alle ferriere di Campoli, Trentafari, Castel Vetere, Spadola e Furno le quali,
oltretutto, risentono della mancanza di corretta gestione. Nel 1523, Carlo decide
di dare nuovamente impulso al settore e dona le miniere al suo scudiero Cesare
Fieramosca, fratello del celebre Ettore. Cesare non sembra entusiasmarsi molto
alla donazione reale che forse ritiene insufficiente a ripagarlo dei servigi
resi a Ferdinando il Cattolico; dimostra infatti un disinteresse assoluto alla
cosa. Per invogliarlo, Carlo V gli cede anche la proprietà perpetua dei forni
fusori (donazione dell'8 dicembre 1523), ma Cesare nicchia. Di fronte a tanta
indifferente “ingratitudine” Carlo insiste. Alle precedenti donazioni,
aggiunge i boschi necessari al trattamento del minerale (concessione del 6
luglio 1526). Difficile
credere che il fido scudiero sia stato mosso da calcoli precisi e sia riuscito a
“giocare” un re come Carlo. Più verosimilmente, per lui, uomo d'arme, la
faccenda non presenta aspetti eccessivamente allettanti perché occuparsene
comporterebbe allontanarsi dalla Corte napoletana, andare anticipatamente in
pensione e appendere la spada al classico chiodo. Probabilmente Cesare ritiene
poco onorevole per chi è abituato a calzare corazza e impugnare spadone,
infilare le pantofole dell'oculato amministratore e armeggiare con la penna
per far di conto. Forse per questo, tarda a entrare in possesso dei suoi nuovi
domini e a dare impulso a un settore dal re ritenuto vitale per l'economia
statale. Spazientitosi
del lungo tergiversare, il 31 agosto del 1526, Carlo ingiunge all'interessato di
partire per andare a sovrintendere alle nuove proprietà. Si sarebbe potuto
aprire un futuro luminoso per Cesare che, nella nuova veste di
“industriale”, padrone assoluto di tutto il ciclo di produzione, sarebbe
potuto diventare antesignano del buon Krupp e avrebbe potuto dare, come il
fratello, ulteriore lustro al blasone. Non sono evidentemente tempi maturi a
fargli comprendere che politica e industria, unite, sono centri di potere più
grandi della spada e dell'onore. Anche il perentorio ordine di partenza non
sortisce l'effetto voluto, in qualche modo Cesare riesce a non dare al re la
soddisfazione di vederlo mutato in “volgare” imprenditore. Vuoi un ostacolo
imprevisto, vuoi un'improvvisa malattia, non effettua mai il viaggio per la
Calabria.
Appena due mesi dopo, Cesare muore e, con testamento del 15 novembre, lascia
tutti i suoi averi ai maschi della linea primogenita. Il primogenito, degno di
tale padre, non si curerà affatto di prendere possesso dell'eredità, per
cui, l'anno successivo, a causa di “pubblica utilità”, il Regio Demanio
requisirà la ferriera di Stilo. Che,
nonostante le vedute di Cesare, le miniere di Pazzano potessero essere un
Eldorado, lo assicura Leandro Alberti - frate domenicano autore della maggiore
opera geografica italiana del secolo XVI - il quale, per conto della
Serenissima, visita la Calabria (nello stesso anno della morte di Cesare) per
tracciare ad uso dei naviganti veneziani le mappe d'andamento costiero. Ecco la
sua descrizione della zona: “... dalla marina, lontano quattro miglia, sopra
un alto colle si dimostra Stilo, nobile castello, dietro al quale a man
sinistra son le miniere del ferro ove se ne cava assai...” (10). I
Fieramosca faranno poco caso alla pubblicità del geografo bolognese che tante
lusinghiere notizie forniva sulla consistenza del patrimonio ereditato. Solo nel
1601 si ricorderanno di essere ancora proprietari delle rimanenti ferriere e
tenteranno di cavarne qualche vantaggio, ma, anche in questa occasione, non
riterranno opportuno recarsi sul posto a gestirle in proprio. Cedono in fitto
ferriere e miniere a un certo Ravaschieri, membro di una ricca famiglia di
banchieri genovesi operanti sulla piazza napoletana. Costui, senza la stoffa dei
parenti e forse alla sua prima esperienza, riesce ad ottenere un utile molto
più basso del preventivato e poco dopo, tirate le prime somme, decide di
restituirle ai legittimi proprietari. I Fieramosca, alla rottura unilaterale del
contratto, gli opporranno una dura resistenza; per costringerli, Ravaschieri
intenta causa. Il tribunale della Regia Camera non riuscirà a comporre la
vertenza e, di fronte al pericolo che nel frattempo le ferriere restino
inoperose ordina la prosecuzione dei lavori sotto la sorveglianza di un
ufficiale di artiglieria scelto dal tribunale stesso. A un non meglio
identificato capitano Castiello accolla il compito di dirigerle per conto della
Corte napoletana. Trascorreranno
venti anni prima che gli eredi Fieramosca si avvedano che il rifiuto opposto a
Ravaschieri li ha portati di fatto a perdere possesso e utili. Errore fatale
perché il governo sarà sordo ad ogni istanza di restituzione. Cadute in mano
allo Stato, le ferriere danno a questo e utili economici, e indubbi vantaggi di
tipo militare; sotto la guida di un artigliere le ferriere iniziano un nuovo
tipo di produzione: sono gli anni in cui il cannone comincia ad avere ruolo
determinante nelle campagne militari. I governi che si succederanno a Napoli si
guarderanno dall'effettuare la restituzione più volte richiesta; di fronte
alle continue istanze della principessa di Scilla, erede di un terzo del
patrimonio di Cesare, per tacitarla, decideranno di offrire, in cambio delle
sole ferriere, tenimenti agricoli ad Atri in Abruzzi. La nobildonna,
soddisfatta, sottoscriverà il baratto nell'anno 1642. Allo Stato non sarà
facile tuttavia avere ragione dei rimanenti eredi; la vertenza con i Fieramosca
avrà strascichi lunghissimi e a più riprese tornerà ad essere dibattuta nelle
aule dei tribunali (11). Durante
il lungo periodo del Vicereame, quando più intense risulteranno le
dominazioni spagnole e austriache, le ferriere, contratte nei loro slanci,
subiscono la medesima sorte delle rimanenti attività culturali e commerciali.
Sono destinate a deperire lentamente, anche se quelle di Pazzano e Stilo
continuano a produrre con alterne vicende fino al 1683 e oltre, come risulta
dalle testimonianze di Gioacchino da Fiore, del Barrio, del Marfiotti e del più
illustre cittadino stilense Tommaso Campanella (12).
A più riprese si tenterà di vivificarle, a fasi alterne si noteranno
rigurgiti produttivi. A volte, ha notato il Galasso nella più completa monografia
sulle attività calabresi di questo periodo, si ricorrerà a tecnici
“stranieri”. Saranno chiamati nel paese capimastri bresciani per cercare
di carpire loro i segreti di dolcificazione delle ghise. Costoro, giunti dallo
stato veneziano, resisteranno poco nel meridione e ripareranno subito nello
stato pontificio. Il
sistema di raffinazione del ferro continua a rimanere approssimativo, le
quantità prodotte esigue; la ferriera di Stilo con uno sforzo “clamoroso”
riesce a sfornare “1200 quintales” (13) di ferro in un anno di felice produzione, mentre la normale
media non supera i tre-quattrocento quintali. Il
sensibile calo degli indici produttivi trova spiegazione nella circostanza che
l'Italia tutta, e il Mezzogiorno in particolare, vengono a trovarsi in questi
anni sempre più lontani dai grandi centri commerciali del Nord Europa. Allo
spostamento dell'asse verso Olanda e Paesi Bassi, verso Inghilterra, Francia e
Germania, corrisponde un generale diradarsi dei traffici marittimi
mediterranei a favore delle nuove, più lucrative, rotte delle Indie. Al duro periodo
di recessione farà però riscontro una “specializzazione” nel campo dei
manufatti; alla contrazione delle attività di base e alla congiuntura
sfavorevole fa riscontro, durante il XVII secolo, la nascita di fiorenti
artigianati. L'attività trainante è legata alla produzione tessile, impostata
sulla lavorazione della seta, che utilizza materia prima calabrese e siciliana
quantitativamente e qualitativamente di primissimo ordine, e che diventerà il
tronco sul quale sarà innestata la cittadella di S.Leucio.
Nella
capitale, fattore di rilievo è l'Arsenale; importantissimo per l'economia
locale risulta l'artigianato orafo. Attivissime sone le “dinastie” di liutai
e organari; i fabbricanti di carrozze guadagnano a Napoli la fama, durata fino
al secolo scorso, di costruire equipaggi belli e confortevoli. Notevole sviluppo
ha la tipografia, ma, più di ogni altro, interessa noi l'emergere del
prestigioso artigianato delle armi, specie da fuoco, che ben presto oscura la
fama dei colleghi spagnoli ritenuti i migliori del campo. Le “armi napolitane”
diventeranno celebri e saranno richieste in tutti gli Stati per qualità dei
materiali, finezza delle incisioni, modernità delle tecniche, precisione dei
meccanismi di tiro. In questa tradizione si collocherà autorevolmente
quel Battisti, preferito da Carlo III anche quando il Borbone lascerà Napoli
per salire al trono di Spagna.
La
ricerca tecnica sulle armi continuerà ininterrottamente nel paese; già dal
1848 una “Regia Patente” brevetterà il “Sistema Venditti” per pistole e
fucili a ripetizione con palle appiattite, cartuccia d'ottone, innesco al
centro, detonante a polvere nera, messi in produzione molto prima delle
“Volcanic” della Smith & Wesson alle quali erroneamente è sempre andato
il merito di essere state le prime con tali soluzioni.
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