Le Reali Ferriere      

ed Officine di  Mongiana

 

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Prefazione

Introduzione

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Tavola Misure Regno delle Due Sicilie

Indice Appendice

Real Decreto e Regolamento

Bibliografia

Bibliografia generale

Indice delle abbreviazioni

Indice delle note

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Capitolo 1  

(2°)

Storia

Miniere e ferriere calabresi da Ruggero il Normanno alla conquista del Vicereame da parte di Carlo di Borbone

La concessione di Ruggero il Normanno è riportata in un ma­noscritto redatto dal Padre D.B.Tromby, autore della storia cro­nologica del santo Brunone fondatore dell'Ordine dei Certosini:

“... item concedo eidem ecclesiae eremi in reliqua terra mea usum liberum minerarum aeris et ferri... ” (5).

Il Conte Ruggero concede al Santo, sul finire del secolo XI, lo sfruttamento di miniere che sono evidentemente già aperte ed esplotate; la cosa non sorprende poiché è nota, in tempi ancora più remoti, la presenza in Calabria di fonderie fenice.

Se un'indubbia influenza ha sul Normanno la parola del Santo venuto dalla Francia a ritirarsi in romitaggio nei boschi della futura Serra, non si può sottovalutare l'accortezza politica della donazione: tutti i re normanni largheggeranno in concessioni ai religiosi e ai loro ordini monastici, al fine di tenere a freno le recalcitranti popolazioni da poco sottomesse. Grande è sul po­polo l'influenza dell'elemento ecclesiastico, soprattutto nella zona in questione dove, oltre Serra, Stilo annovera numerosi e potenti ordini religiosi (6). All'ascesa al trono di un nuovo re, puntualmente come da cerimoniale, le precedenti donazioni sono confermate e in qualche caso addirittura aumentate. Nel 1173, Guglielmo Re di Sicilia aggiunge: “... et libertatibus minerae aeris et ferri...” con­cedendo alla Certosa centodieci contadini e un mulino “in per­tinentiis Stili” (7).

Nessuna notizia sotto gli Svevi, causa la totale distruzione dei loro registri di concessione. Nell'intento di cancellare il ricordo degli Hoenstaufen, Carlo d'Anjou ordina la distruzione di ogni documento relativo al periodo svevo. Il tentativo di rimuovere dal­le memorie Federico II, i suoi discendenti Manfredi e Corradino, non gli riuscirà per l'odio viscerale verso i “francesi” e per il seguito popolare di casa sveva, che costerà agli angioini le gior­nate dei Vespri, ma gli riesce di cancellare il ricordo delle attività delle miniere.

Le miniere di Pazzano, durante gli “slanci industriali” voluti da Roberto d'Anjou, sono rivalutate; Roberto riprende lo sfruttamento del sottosuolo calabrese; un rescritto del 1333 fa cenno al lavoro nelle gallerie del Monte Stella. Lo stesso documento ricorda che dal 1314 è in funzione a Pazzano una ferriera di proprietà del convento di Serra S.Bruno. Da un precedente rescritto risultano riattivate a Pazzano e Stilo altre due miniere sulle quali il re si riserva diritti speciali di sfruttamento.

Miniere e ferriere sono amministrate da “arrendatari” i quali le hanno a mezzadria con il convento e con il re, le hanno in con­cessione e pagano a questi le “rendite” in danaro e manufatti.

Questa industria meridionale - se così ci è concesso chiamarla - continua la sua attività fino alla seconda metà del secolo XV, quando decade in conseguenza di ingenti importazioni di ferri triestini e toscani, privilegiati rispetto ai locali dalla presenza nel regno di cospicui capitali fiorentini e genovesi. Un colpo mortale le verrà poi inferto dai proibitivi dazi imposti da Ferdinando d'A­ragona all'estrazione, lavorazione e commercio del ferro grezzo (8).

Decaduta, rimane pressocché inattiva fino al regno di Carlo V. La ferriera di Stilo nel 1520 è inattiva (9) e le miniere, quasi del tutto abbandonate, forniscono scarso materiale alle ferriere di Campoli, Trentafari, Castel Vetere, Spadola e Furno le quali, oltretutto, ri­sentono della mancanza di corretta gestione. Nel 1523, Carlo de­cide di dare nuovamente impulso al settore e dona le miniere al suo scudiero Cesare Fieramosca, fratello del celebre Ettore. Ce­sare non sembra entusiasmarsi molto alla donazione reale che forse ritiene insufficiente a ripagarlo dei servigi resi a Ferdinando il Cattolico; dimostra infatti un disinteresse assoluto alla cosa. Per invogliarlo, Carlo V gli cede anche la proprietà perpetua dei forni fusori (donazione dell'8 dicembre 1523), ma Cesare nicchia. Di fronte a tanta indifferente “ingratitudine” Carlo insiste. Alle precedenti donazioni, aggiunge i boschi necessari al trattamento del minerale (concessione del 6 luglio 1526).

Difficile credere che il fido scudiero sia stato mosso da calcoli precisi e sia riuscito a “giocare” un re come Carlo. Più verosimilmente, per lui, uomo d'arme, la faccenda non presenta aspet­ti eccessivamente allettanti perché occuparsene comporterebbe allontanarsi dalla Corte napoletana, andare anticipatamente in pensione e appendere la spada al classico chiodo. Probabilmente Cesare ritiene poco onorevole per chi è abituato a calzare corazza e impugnare spadone, infilare le pantofole dell'oculato ammini­stratore e armeggiare con la penna per far di conto. Forse per questo, tarda a entrare in possesso dei suoi nuovi domini e a dare impulso a un settore dal re ritenuto vitale per l'economia statale.

Spazientitosi del lungo tergiversare, il 31 agosto del 1526, Carlo ingiunge all'interessato di partire per andare a sovrintendere alle nuove proprietà. Si sarebbe potuto aprire un futuro luminoso per Cesare che, nella nuova veste di “industriale”, padrone assoluto di tutto il ciclo di produzione, sarebbe potuto diventare antesi­gnano del buon Krupp e avrebbe potuto dare, come il fratello, ulteriore lustro al blasone. Non sono evidentemente tempi maturi a fargli comprendere che politica e industria, unite, sono centri di potere più grandi della spada e dell'onore. Anche il perentorio ordine di partenza non sortisce l'effetto voluto, in qualche modo Cesare riesce a non dare al re la soddisfazione di vederlo mutato in “volgare” imprenditore. Vuoi un ostacolo imprevisto, vuoi un'improvvisa malattia, non effettua mai il viaggio per la Calabria. Appena due mesi dopo, Cesare muore e, con testamento del 15 novembre, lascia tutti i suoi averi ai maschi della linea pri­mogenita. Il primogenito, degno di tale padre, non si curerà af­fatto di prendere possesso dell'eredità, per cui, l'anno succes­sivo, a causa di “pubblica utilità”, il Regio Demanio requisirà la ferriera di Stilo.

Che, nonostante le vedute di Cesare, le miniere di Pazzano po­tessero essere un Eldorado, lo assicura Leandro Alberti - frate domenicano autore della maggiore opera geografica italiana del secolo XVI - il quale, per conto della Serenissima, visita la Calabria (nello stesso anno della morte di Cesare) per tracciare ad uso dei naviganti veneziani le mappe d'andamento costiero. Ecco la sua descrizione della zona: “... dalla marina, lontano quattro miglia, sopra un alto colle si dimostra Stilo, nobile castello, die­tro al quale a man sinistra son le miniere del ferro ove se ne cava assai...” (10).

I Fieramosca faranno poco caso alla pubblicità del geografo bolognese che tante lusinghiere notizie forniva sulla consistenza del patrimonio ereditato. Solo nel 1601 si ricorderanno di essere an­cora proprietari delle rimanenti ferriere e tenteranno di cavarne qualche vantaggio, ma, anche in questa occasione, non riterranno opportuno recarsi sul posto a gestirle in proprio. Cedono in fitto ferriere e miniere a un certo Ravaschieri, membro di una ricca famiglia di banchieri genovesi operanti sulla piazza napoletana. Costui, senza la stoffa dei parenti e forse alla sua prima espe­rienza, riesce ad ottenere un utile molto più basso del preven­tivato e poco dopo, tirate le prime somme, decide di restituirle ai legittimi proprietari. I Fieramosca, alla rottura unilaterale del con­tratto, gli opporranno una dura resistenza; per costringerli, Ra­vaschieri intenta causa. Il tribunale della Regia Camera non riu­scirà a comporre la vertenza e, di fronte al pericolo che nel frattempo le ferriere restino inoperose ordina la prosecuzione dei lavori sotto la sorveglianza di un ufficiale di artiglieria scelto dal tribunale stesso. A un non meglio identificato capitano Castiello accolla il compito di dirigerle per conto della Corte napoletana.

Trascorreranno venti anni prima che gli eredi Fieramosca si avvedano che il rifiuto opposto a Ravaschieri li ha portati di fatto a perdere possesso e utili. Errore fatale perché il governo sarà sordo ad ogni istanza di restituzione. Cadute in mano allo Stato, le ferriere danno a questo e utili economici, e indubbi vantaggi di tipo militare; sotto la guida di un artigliere le ferriere iniziano un nuovo tipo di produzione: sono gli anni in cui il cannone comincia ad avere ruolo determinante nelle campagne militari. I governi che si succederanno a Napoli si guarderanno dall'effettuare la resti­tuzione più volte richiesta; di fronte alle continue istanze della principessa di Scilla, erede di un terzo del patrimonio di Cesare, per tacitarla, decideranno di offrire, in cambio delle sole ferriere, tenimenti agricoli ad Atri in Abruzzi. La nobildonna, soddisfatta, sottoscriverà il baratto nell'anno 1642. Allo Stato non sarà facile tuttavia avere ragione dei rimanenti eredi; la vertenza con i Fieramosca avrà strascichi lunghissimi e a più riprese tornerà ad essere dibattuta nelle aule dei tribunali (11).

Durante il lungo periodo del Vicereame, quando più intense ri­sulteranno le dominazioni spagnole e austriache, le ferriere, contratte nei loro slanci, subiscono la medesima sorte delle rimanenti attività culturali e commerciali. Sono destinate a deperire len­tamente, anche se quelle di Pazzano e Stilo continuano a produrre con alterne vicende fino al 1683 e oltre, come risulta dalle testimonianze di Gioacchino da Fiore, del Barrio, del Marfiotti e del più illustre cittadino stilense Tommaso Campanella (12). A più riprese si tenterà di vivificarle, a fasi alterne si noteranno rigurgiti produttivi. A volte, ha notato il Galasso nella più completa mo­nografia sulle attività calabresi di questo periodo, si ricorrerà a tecnici “stranieri”. Saranno chiamati nel paese capimastri bresciani per cercare di carpire loro i segreti di dolcificazione delle ghise. Costoro, giunti dallo stato veneziano, resisteranno poco nel meridione e ripareranno subito nello stato pontificio.

Il sistema di raffinazione del ferro continua a rimanere appros­simativo, le quantità prodotte esigue; la ferriera di Stilo con uno sforzo “clamoroso” riesce a sfornare “1200 quintales” (13) di ferro in un anno di felice produzione, mentre la normale media non supera i tre-quattrocento quintali.

Il sensibile calo degli indici produttivi trova spiegazione nella circostanza che l'Italia tutta, e il Mezzogiorno in particolare, ven­gono a trovarsi in questi anni sempre più lontani dai grandi centri commerciali del Nord Europa. Allo spostamento dell'asse verso Olanda e Paesi Bassi, verso Inghilterra, Francia e Germania, cor­risponde un generale diradarsi dei traffici marittimi mediterranei a favore delle nuove, più lucrative, rotte delle Indie. Al duro pe­riodo di recessione farà però riscontro una “specializzazione” nel campo dei manufatti; alla contrazione delle attività di base e alla congiuntura sfavorevole fa riscontro, durante il XVII secolo, la nascita di fiorenti artigianati. L'attività trainante è legata alla produzione tessile, impostata sulla lavorazione della seta, che utilizza materia prima calabrese e siciliana quantitativamente e qualitativamente di primissimo ordine, e che diventerà il tronco sul quale sarà innestata la cittadella di S.Leucio.

[fig.2]

Incisione raffigurante sistemi di scavo ed estrazione nelle miniere. Sec.XVI (De Re Maetallica)

Nella capitale, fattore di rilievo è l'Arsenale; importantissimo per l'economia locale risulta l'artigianato orafo. Attivissime sone le “dinastie” di liutai e organari; i fabbricanti di carrozze guadagnano a Napoli la fama, durata fino al secolo scorso, di costruire equipaggi belli e confortevoli. Notevole sviluppo ha la tipografia, ma, più di ogni altro, interessa noi l'emergere del prestigioso artigianato delle armi, specie da fuoco, che ben presto oscura la fama dei colleghi spagnoli ritenuti i migliori del campo. Le “armi napolitane” diventeranno celebri e saranno richieste in tutti gli Stati per qualità dei materiali, finezza delle incisioni, modernità delle tecniche, precisione dei meccanismi di tiro. In questa tradizione si collocherà autorevolmente quel Battisti, preferito da Carlo III anche quando il Borbone lascerà Napoli per salire al trono di Spagna.  

 

[fig.3]

Incisione raffigurante una fornace del XVI Sec. (De Re Maetallica).

La ricerca tecnica sulle armi continuerà ininterrottamente nel paese; già dal 1848 una “Regia Patente” brevetterà il “Sistema Venditti” per pistole e fucili a ripetizione con palle appiattite, cartuccia d'ottone, innesco al centro, detonante a polvere nera, messi in produzione molto prima delle “Volcanic” della Smith & Wesson alle quali erroneamente è sempre andato il merito di essere state le prime con tali soluzioni.  

 

 

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