Le
Reali Ferriere ed Officine di Mongiana |
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Capitolo 3 (5°) Il fucile da fanteria modello “Mongiana” Quattro
colonne, quattro semicolonne, due pani di ghisa, qualche piccola opera da getto,
meno di una decina di fucili sono gli unici prodotti delle officine di Mongiana
oggi a noi noti. Le colonne sono ancora alla vista di tutti, mentre gli altri
oggetti, in particolare le armi sfuggite alla distruzione, costituiscono il
vanto di fortunati collezionisti, gelosi di questi pezzi dalla tecnica non
comune. Si
deve a M. Carascosa e alla precisa volontà di G. Murat l'idea di fabbricare
armi a Mongiana. Le valutazioni economiche del Direttore Carascosa, tra i
primi ad intravvedere i vantaggi dell'utilizzazione del ferro sul posto, unite
alla fame d'armi che affligge Regno napoletano e Impero napoleonico, decidono la
costruzione della “Fabbrica delle Canne”; per la zona non è una novità. A
Stilo in tempi assai più remoti funzionavano una fabbrica di cannoni e una
manifattura d'armi (1). La
nuova “Manifattura”, iniziata nel 1814, entra in produzione l'anno seguente;
un'ipotesi non troppo azzardata porta a credere che anche Mongiana dovesse
produrre i famosi “Murat”, fucili oggi ricercati dai collezionisti e rari
quanto quelli prodotti in seguito dalla fabbrica calabrese. L'edificio
murattiano della “Fabbrica delle Canne” è costruito senza eccessive
pretese, in tempi ridotti, e per giunta in un luogo soggetto alla piena dei
fiumi (la qualcosa gli costerà il nomignolo di “Ospedale” affibbiatogli dai
mongianesi stanchi delle continue riparazioni alle quali è sottoposto). Se la
scelta del luogo è stata infelice e la costruzione non brilla in grandiosità,
viceversa gli armieri che vi lavorano sono di primissimo ordine; provengono
dalla zona napoletana e in qualche caso sono francesi al seguito di Murat. Quando
tre anni dopo la Mongiana torna in mano borbonica, il nome di “Fabbrica delle
Canne” muta in quello di “Regia Manufattura e Armeria”. Lo “Stato
delle Rimesse” del 1818 rivela prodotte nel corso dell'anno ben 1422 canne,
delle quali solo 208 non “ammesse” alle prove d'officina, 500 culatte e
altri accessori minori. Lo stesso anno l'Officina del Maglietto sul Ninfo tira
524 “lastre per canne” e il “Laminiero”, da parte sua, produce 146
lamiere per sciabole e armi bianche; il governo non fa costruire il fucile
completo ma solo le parti vitali: il semilavorato, spedito a Napoli via Pizzo,
è inoltrato alla “Real Manifattura” di Torre Annunziata dov'è rifinito e
assemblato. Qualche anno più tardi anche Mongiana produrrà armi a ciclo
completo e la ferriera continuerà a fornire Torre di lastre e ferro-sbarra A
23, lo stesso usato per i propri fucili. La
“Regia Manifattura” di Mongiana cessa di esistere nel 1850: l'edificio è
definitivamente travolto dalle acque alluvionali. Unica testimonianza della sua
attività è oggi rappresentata da un fucile con il marchio “R”(egia) “M”(anifattura)
“di Mongiana” inciso all'esterno dell'acciarino. All'interno è
stampigliato l'anno “1851” che farebbe supporre essere stato
costruito con materiali sottratti all'alluvione in un edificio che non può
essere né il murattiano distrutto, né quello della “Fabbrica d'Armi”, la
quale adotterà il marchio “Ma”(nifattura) “Re”(ale) “di Mongiana”.
Tutti gli esemplari noti, prodotti tra il 1852 e il '60, recano il nuovo
marchio di fabbrica; un solo fucile porta impressa la nuda dicitura “Mongiana
1860” in quanto probabilmente costruito negli ultimi mesi di quell'anno,
durante la gestione garibaldina. Tanto il “1851”, da noi attribuito
alla vecchia produzione, che tutti gli altri fucili sono d'identico modello, con
canna da 40 pollici, il quale pur se è il solo sopravvissuto, non è l'unico
tipo costruito a Mongiana. Un
sesto della produzione è infatti imperniata intorno a un modello con canna da
38 pollici che, sebbene prodotto al ritmo di una ventina di esemplari al mese,
non è riuscito a giungere ai nostri giorni (finora non è stato segnalato il
ritrovamento). La
“Fabbrica d'Armi” costruita da Savino non ha nulla in comune con il sommario
edificio del 1814. I suoi locali sono spaziosi e i macchinari di gran lunga
migliori; è divisa in tre edifici “a scala” lungo la china del colle,
addossati al corso del Ninfo dal quale è ricavata la forza motrice; sul lato
sinistro dell'atrio il deposito delle lastre e un piccolo magazzino per le
provviste, sul destro la scuola per l'istruzione dei figli degli operai.
L'edificio intermedio è a tre livelli con a piano terra le mole, al primo le
officine dei “limitatori di canne e daghe”, al secondo i “limitatori” di
pezzi da batteria e gli “aggiustatori”. Il terzo edificio è diviso in due
reparti distinti e separati, per i “fucinatori di canne, armi bianche e
pezzi da batteria il primo, per i “fresatori” e le macchine il secondo. Il
personale impiegato dalla intera fabbrica oscilla tra un minimo di cento (1852)
e un massimo di duecento unità (1863). Da
un consuntivo di un mese campione (aprile 1860, in pieno forcing) risulta
la seguente produzione:
Inoltre:
ponti, sottoponti, vitoni, cilindretti, fascette, portacorregge, mire,
tirapalle e ogni altro accessorio necessario al completamento delle armi (2).
I
“Mongiana” hanno seguito la stessa sorte della ferriera, dimenticati a
torto, non sono ufficialmente catalogati, né hanno autonoma denominazione.
Per il modello da 40 pollici, l'Arrigoni e il Cimino (3)
propongono la denominazione “Fucile borbonico da fanteria mod.
Mongiana”, da noi riportato in breve con “Mongiana”; le sue
caratteristiche tecniche hanno ben poco in comune con i più conosciuti fucili
dell'esercito delle Due Sicilie, differenziandosi sia da quelli costruiti a
Torre, sia delle famose “carabine” borboniche da 32 pollici in dotazione ai
battaglioni dei “Cacciatori”. Il “Mongiana” è invece simile nella
struttura al fucile francese mod. “1842”, ma se ne discosta nelle
dimensioni, nella meccanica e nei materiali. La canna è più lunga di 45 mm e
l'acciarino, pur di tipo francese “molla indietro”, è privo di tirantino
tra mollone e noce del cane. La trasmissione del movimento di alzo è diretta
per frizione e non indiretta come nel francese. Le finiture, di ferro nel
francese, nel “Mongiana” sono d'ottone (compreso lo scudo e esclusa la sola
controcartella triangolare); ancora una volta la tradizione napoletana cura
l'estetica facendo ricorso a materiali più pregiati e meno deperibili (a Mongiana
come in tutte le ferriere del Regno era in funzione una piccola fonderia per
bronzo, rame e ottone). L'influenza francese sul “Mongiana” è determinata
dalla presenza a fianco dei colleghi locali di numerosi armaioli e tecnici
francesi. Si spiegano così anche le origini di molte famiglie di Mongiana dagli
inequivocabili cognomi francesi: Brussard, Jorfida, Sadurny, Geoffri, ecc.
La
tecnica Mongianese, come già aveva notato il Landi, tende a semplificare e
ridurre all'osso i meccanismi. Mongiana impartisce una lezione alla diretta
rivale Torre Annunziata, manifattura più blasonata ma molto meno
all'avanguardia. Nella scelta del modello, Mongiana vanta un primato su Torre
perché già prima del 1850 produce il “molla indietro”, mentre Torre fino
al 1860 resta ancorata al tradizionale “molla avanti”, fucile dalla scarica
più lenta e dalla concezione superata. Altra prerogativa dei “Mongiana”
sono i calci in legno di faggio e, cosa del tutto inusuale, in qualche caso i
fusti sono d'abete bianco, le due essenze locali.
Molto
interessanti sono i punzoni e i marchi distribuiti a profusione sulle
cartelle, sopra e sotto le canne, sulle piastrine dei calcioli e sulle
rifiniture. L'anno di costruzione è in genere stampigliato sull'acciarino,
qualche volta sul focone; tale punzone si riferisce al periodo di fabbricazione
della canna, non necessariamente del fucile. I marchi di fabbrica sono apposti
all'esterno degli acciarini; sulle piastrine dei calcioli sono impresse le sigle
dei Corpi d'appartenenza dell'arma. Circa la metà dei “Mongiana” conosciuti
recano la sigla “15 R”, erano cioè in dotazione ai “carabinieri”
(reparti armati di fucile rigato o “carabina”> del Quindicesimo
Reggimento di Fanteria di Linea “Messapia”.Un solo esemplare presenta la
sigla “1 R” del Primo Reggimento “Re”. Ulteriori stampigliature sulle
piastrine specificano la compagnia (o il plotone), il numero della fila e la
posizione del soldato all'interno di essa. Meno intellegibili sono tutte le
altre sigle sparse sull'arma. Alcuni numeri potrebbero essere le matricole del
fucile, alcune sigle quelle dei “Verificatori Reali”, altre i punzoni
d'ammissione ai Corpi. Qualcuna dovrebbe essere la marca di riconoscimento
dell'artigiano costruttore, “per la quale si conosca e sappia sempre chi
ha fatto tal arme” (4), il quale è
obbligato ad apporla in modo da essere costretto a consegnare armi perfette.
Almeno
fino al 1864 la fabbrica produce a ritmo sostenuto; la produzione giornaliera è
di dodici assortimenti completi (fucile, baionetta, accessori, sciabola e
pugnale); la produzione annuale si aggira intorno a 3000 fucili e altrettante
armi bianche ma, come risulta da una relazione stesa nel 1863 dal maggiore
Rimaldi (5), potrebbe raddoppiare se fosse sfruttata
meglio la forza motrice. Anche la Fabbrica d'Armi, durante i primissimi anni
dell'Unità risente le difficoltà nelle quali versa la Fonderia. Questa non
riesce a sfornare le qualità di una volta e i laminatoi della ferriera sono
“costretti” a consegnare lastre imperfette alla Manifattura di Torre. Errore
“ingenuo” della nuova Direzione unitaria che, nel 1864, presta il fianco
alle pronte lamentele dei responsabili di Torre i quali appronteranno una
relazione negativa sul prodotto ricevuto, dando modo al governo di vietare alla
Manifattura torrese di ritirare il prodotto calabrese, e ordinando di
rimpiazzarlo con quello lombardo e aostano. La Direzione di Torre, più centrale
e “informata”, mette immediatamente in pratica la tattica del “mors tua
vita mea” avendo compreso che nei disegni unitari non vi sarebbe mai stato
spazio per due importanti fabbriche d'armi al Sud e che l'unica a potersi
salvare dalla chiusura sarebbe stata essa, grazie alla sua vicinanza
all'opinione pubblica napoletana: la scelta sarebbe stata impolitica e assai più
traumatica della chiusura della lontana e periferica manifattura calabrese. Nei
primi due o tre anni unitari, abbandonato il modello di carabina borbonica e
adottato il moschetto nazionale, Mongiana viene privata delle forniture alla
Fanteria, nerbo dell'esercito e corpo a più largo assorbimento d'armi, e viene
“gratificata” delle forniture all'Artiglieria, ai Real Carabinieri, Genio e
Marina, corpi di maggiore specializzazione ma di minore entità. Nella
riconversione, la fabbrica se la cava benissimo. Produce le nuove canne, gli
alzi, i luminelli, i traguardi, i nuovi modelli di sciabole, di baionotte,
cacciaviti, cavastacci, caccialuminelle, tiramolle, ecc.; le tariffe concordate
dalla nuova amministrazione sono di Lire 35,520 ad assortimento. I locali
inviano al Ministero varie proposte di miglioria all'impianto assicurando che,
se approvate e messe in pratica, le tariffe avrebbero subito un ribasso a Lire
28,820 inferiore quindi ai costi approvati per le fabbriche settentrionali. Il
Ministero non accusa ricevuta.
A
metà degli anni settanta la Fabbrica è declassata a “Officina
Trasformazioni”; segue la sorte toccata a Pietrarsa, passata da stabilimento
di produzione a “Officina Grandi Riparazioni”. Alla Mongiana spetterà il
compito di trasformare da “silice” a “fulminante” i fucili della
Guardia Nazionale; da tutti i centri del Mezzogiorno affluiranno migliaia di
vecchi “Murat” che, rimaneggiati, torneranno ai vari Municipi. Se simili
attrezzi, per l'epoca già pezzi da museo, sono rimessi in circolazione vuol
dire che la nuova nazione è davvero assetata d'armi. La parabola della Fabbrica si chiude con un'ultima testimonianza, una nuda lama di fioretto con il marchio unitario sul codolo: fine ingloriosa per una manifattura che pochi anni prima ha guadagnato medaglie e diplomi e che ha sempre lavorato “daghe a damasco”, metodo che presuppone grande abilità e perizia.
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