Le
Reali Ferriere ed Officine di Mongiana |
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Capitolo 2 (c) Le
ferriere di Stilo erano state stroncate dalla mancanza di combustibile e, a
Mongiana, i tagli boschivi senza criterio avevano messo in crisi anche il nuovo
impianto costringendo i militari a maggiori cautele e più attenta vigilanza.
Cure non meno serie gli artiglieri dovranno dedicare al secondo elemento
naturale che, con la propria presenza, aveva contribuito a far scegliere la località
Cima come zona adatta all'insediamento: l'acqua dei fiumi che scorrono al fondo
della valle. Avere boschi a portata di mano era stata una prima condizione
indispensabile; la seconda era stata la presenza di acque perenni, possibilmente
abbondanti, che potevano dotare l'impianto di forza motrice sufficiente e
continua. Le due condizioni erano state rintracciate nella località suddetta
che è situata al centro di una vallata di natura granitica, ripida e dirupata.
A fondo valle il breve corso del Ninfo incontra le acque dell'Alaro; la
confluenza era stata giudicata da Conty e Persico idonea alle esigenze della
ferriera da costruire. In
realtà l'acqua costituirà in un primo tempo il tallone d'Achille dell'intera
struttura produttiva perché il flusso, proveniente da sorgenti distanti
appena due chilometri, si rivelerà inadeguato a muovere le ruote con la
dovuta forza e continuità, e risulterà inadatto a fare sviluppare dalle trombe
idroeliche tutto il volume d'aria necessario ai processi di fusione. Se la
natura elargirà a piene mani il materiale per la carbonizzazione, sarà invece
avara di acque nei periodi estivi e ciò rappresenterà un insormontabile handicap. Lo
spinoso problema era stato in parte risolto dalle livellazioni dei due fiumi,
eseguite sotto la direzione dell'architetto Mario Gioffredo tra il 1771 e il
1778. In questi otto anni Gioffredo è di stanza nella vicina Alvito per
sovrintendere all'apertura e all'esplorazione delle miniere scoperte in quel
paese e, dirige anche le livellazioni che servono ad aumentare la velocità di
caduta dell'acqua e ad incanalarla alle trombe. Tuttavia, anche con un simile
accorgimento le campagne annuali dei primi decenni erano durate quattro, al
massimo cinque mesi, creando notevoli disagi e scompensi produttivi. Si univa
alla scarsezza di flusso un fattore non meno negativo: l'aria sviluppata dalle
prime trombe installate, durante i periodi di pioggia intensa, era satura di
umidità che attraverso gli ugelli penetrava nei forni, rovinava ghisa e ferro e
ritardava tempi di fusione e messa in fuoco dei forni. Al contrario, in estate
con la scomparsa dell'inconveniente, la portata dei corsi scendeva a livelli
minimi costringendo a sospendere il lavoro per poterlo riprendere alla
successiva piena (1). Il
sistema “a caduta” e i primi impianti idrici di ventilazione rimangono in
funzione alla ferriera fino all'arrivo dei militari. Apparirà chiaro ai nuovi
responsabili che in nessun modo potrà essere aumentato il flusso d'acqua,
neanche ricorrendo all'apertura di nuovi canali o a ulteriori livellazioni.
Decideranno di tentare l'operazione inversa: diminuiranno il fabbisogno d'acqua
con la sostituzione delle vecchie trombe, del resto di mediocre fattura, con
altre nuove di concezione migliore e portata superiore. Queste daranno un
esito più soddisfacente: si otterrà un sensibile aumento di volume d'aria
dall'identico flusso d'acqua. Saranno rettificati i processi, accellerati i
tempi e finalmente sarà possibile calcolare con precisione la durata delle
fusioni (2). Grazie
all'immissione nell'Alaro di tutti i piccoli corsi in precedenza non sfruttati
come affluenti, trent'anni dopo, l'apparecchio ordinario per alimentare la
Fonderia consiste in trentadue trombe, formate da capaci tubi di ferro, che in
due distinte cadute di mt. 11,50 consumano, se attivate contemporaneamente, da 1
a 1,25 metri cubi d'acqua al secondo (3). L'impianto
è costato circa mille ducati ma, per la semplicità di funzionamento, la
manutenzione è ridotta al minimo, non crea problemi e risulta economicamente
insignificante. La campagna fusiva può protrarsi per otto mesi di seguito;
durante i quattro mesi di stasi si curano le sostituzioni delle attrezzature
logore ma non viene interrotta la raffinazione della ghisa e la confezione di
manufatti. Quando la ferriera sarà chiamata a super-lavoro per produrre la
ghisa bianca da inviare ai puddler dell'affineria Ischitella (annessa alle
Officine di Pietrarsa), la campagna degli altiforni sarà estesa a tutto l'anno
e, per supplire alle magre dei fiumi, si doteranno gli impianti di una macchina
eolica, con funzioni analoghe agli attuali iniettori, chiamata “il
Ventilatore”. Per l'epoca la macchina è una vera rarità: ha gli stantuffi
mossi dal vapore prodotto da una caldaia che, per il riscaldamento, sfrutta i
gas caldi in uscita dagli altiforni. Spedita da Napoli, sulle prime la macchina
delude le aspettative in quanto inadatta allo scopo. Purtroppo ha gli stantuffi
verticali ad azione diretta e, con ogni probabilità, è stata ideata per scopi
diversi: non
per utilizzare a recupero i gas. L'abilità e l'inventiva di Savino, factotum
della ferriera,
suppliscono i difetti della macchina. Il “ventilatore” viene
installato nell'ex locale della barena dei cannoni; i gas, raccolti da
apposite tramogge ideate dall'ingegnere, sono sfruttati per il riscaldamento di
tre bollitori collegati ognuno ad un altoforno. Insieme agli stantuffi devono
essere sostituiti i cilindri e il tutto è realizzato nello stabilimento.
L'attivazione del nuovo impianto si ottiene dalla combustione di carbone
vegetale in un fornello supplementare; la cosa è accolta come una vera
conquista perché tale combustibile è generalmente ritenuto inefficace al
funzionamento di simili macchinari. La potenza complessiva installata è pari
a 50 HP e fornisce un volume d'aria supplettivo di 1200 metri cubi l'ora i
quali, con la residua forza idraulica estiva, permettono la lavorazione lungo
tutto l'arco dell'anno (4). I
corsi dei due fiumi di Mongiana sono costellati di edifici. Fonderia,
fabbriche, officine e segherie formano un articolato complesso distribuito su
una lunghezza totale di circa sei chilometri. Sopra il villaggio, a sinistra
della strada che scende al paese, è l'Officina del Maglietto il cui interno è
suddiviso in due settori con relativi magli e distendini per la produzione delle
lastre delle canne di fucile; è animata dal solo Ninfo con una caduta di 10
metri. Lungo lo stesso fiume, più a valle, sono i tre edifici della Fabbrica
d'Armi; le sue ruote sono messe in movimento da due distinte cadute di 9 e 10
metri l'una. Poco sotto il villaggio, azionata dall'acqua riunita del Ninfo e
dell'Alaro, la grande Fonderia è servita da due cadute di 11 metri e mezzo.
Vicina alla Fonderia, unita ad essa da un ponte, è la Raffineria S.Brunello
dove sono installati i fornelli alla Wilkinson. Ancora più a valle, sulla riva
destra dell'Alaro, l'acqua aziona l'Officina del Cubilotto specializzata nel
getto e staffaggio dei proiettili; nel suo interno sono i martinetti per
calibrarli. A qualche centinaio di metri, sulla riva sinistra del fiume, è la
Raffineria S.Francesco dove si fabbricano stadere, pesi, misure e più in
generale minutaglie e strumenti di precisione; la sua caduta totale è di 23
metri. Un chilometro più giù è la Raffineria S.Teresa che, insieme alle poco
distanti S.Carlo e S.Ferdinando, con i forni a sistema contese, è la costruttrice
delle grosse opere da getto e probabilmente in essa vedono la luce le colonne
della Fabbrica d'Armi; la caduta è di 10 metri circa e l'acqua vi proviene da
canali con prese nell'Alaro. Alla confluenza dell'Alaro con il Vagellaro, buon
ultima, la Raffineria di Robinson (ex Real Principe) con il laminatoio
omonimo. Alla
Ferdinandea sono in funzione per l'alimentazione dell'unico altoforno 8 trombe
del tipo mongianese che, nonostante la maggiore portata invernale, in estate
diventano meno efficaci di quelle di Mongiana. L'acqua proviene da tre canali,
costruiti al fondo di tre valloni, dai monti S.Nicola, Ruggero e Fulé. La
portata estiva è minore perché il canale S.Nicola, il più abbondante dei tre,
è costruito su un letto permeabile, risulta sterile e le sue acque in estate
sono tutte assorbite dal terreno prima di giungere alla caduta. Il volume
totale dei tre canali, misurato dopo le precipitazioni, è di circa 1,50 metri
cubi al secondo; la caduta ha un'altezza di 16 metri ma, poiché il piede
delle trombe è sollevato di circa sei metri, si potrebbe usufruire di una
caduta complessiva di 22 metri. Le
acque sono assillo continuo, assidua preoccupazione; creano agli addetti, alle
attrezzature, agli stessi abitanti difficoltà di ogni genere minacciandone a
volte la sopravvivenza; sono croce e in minima parte delizia. Le sorgive
favoriscono l'attività invernale ma contraggono l'estiva, concedono la forza
motrice e allo stesso tempo la negano. Le sotterranee ostacolano il lavoro in
galleria dove provocano seri danni. Le piovane si abbattono a volte in maniera
tanto violenta da troncare i ritmi di crescita produttiva. La ferriera in ultima
analisi è una strana creatura che vive in simbiosi con le acque. È fisicamente
legata ai fiumi, veri cordoni ombelicali stesi sul territorio; in contrasto con
le leggi della natura cade in letargo in estate, pronta a risvegliarsi alle
prime piogge. A muso in aria si mette ad attenderle e spera che siano tali da
fornire alle bocche dei suoi torni la forza di divorare il pasto di strati
alterni di minerali e vegetali; ingoia i suoi bravi sandwich, li
digerisce nei ventri caldi, li rumina alle forge, li manipola nelle officine
respirando con polmoni di ferro e narici a mantice. L'habitat naturale offre
condizioni di vita congeniali alla struttura e allo sviluppo organico del suo
corpo. Tutto il suo modo di vita è sostanzialmente previsto e pianificato. Ma
nessuna previsione è valida in caso di rottura dell'equilibrio climatico e
idrogeologico, né sono prevedibili le conseguenze; queste in più di una occasione
sono tali da far temere l'arresto dello sviluppo del suo corpo.
L'essere
ubicata in montagna, con ai fianchi ripide e dilavate pareti, rende la
ferriera particolarmente incline a subire, in caso di abbondanti precipitazioni,
danni irreparabili o riparabili a danno della continuità di produzione. Il
ciclo è interrotto dalle alluvioni che a più riprese s'abbattono sulla zona. I
danni, quando non sono gravi per gli edifici e le fabbriche, sono avvertiti
nelle miniere, le più soggette alle precipitazioni perché le acque trovano
sempre la via per invaderle e renderle impraticabili. Esasperato dalla natura
geologica del Monte Stella, il fenomeno ha andamento endemico in quanto anche
le acque di leggeri piovaschi riescono a filtrare fino alle gallerie rendendo
la vita impossibile ai minatori, sempre costretti a lavorio per incanalarle ed
evacuarle con la costruzione di un rilevante numero di canalette di scolo. La
galleria Carolina, iniziata nel 1798 dai mineralogisti, deve essere abbandonata,
dopo avere fornito solo 40.000 cantaia di minerale, per l'impeto di un torrente
che, infiltratosi nel sottosuolo e fattosi strada fino alla volta della
galleria, sfocia all'interno, allagandola completamente (5).
Incidenti di questo genere si verificano per lo più in inverno, ma anche in
estate è difficile porvi riparo per l'impossibilità di addentrarsi nei
cunicoli pericolanti dove l'acqua imputridisce le fortificazioni in legno. I
danni patiti dalla Carolina sono i primi in ordine cronologico di una nutrita
casistica; chi prima, chi dopo, quasi tutti i tratti di miniera sono inondati.
Per far defluire nei tratti di livello inferiore le acque, che invadono quelli
sovrastanti in esercizio, si aprono cunicoli di sfogo tra i due livelli.
Significativo il caso della galleria S.Nicola che nel 1816, a due anni
dall'apertura, è invasa dalle infiltrazioni provocate da un furioso temporale
che imperversa su Pazzano; l'inondazione costringe a murare la bocca della
galleria e a vietarne l'apertura. Di riaprirla, insieme ad altre già
abbandonate, se ne riparlerà solo nel 1830 quando il Direttore di Mongiana
solleciterà il capitano “alle Miniere” a studiare un piano d'intervento per
utilizzare i vecchi bracci, fosse anche per convogliarvi acque stagnanti nei
tratti superiori.
A
Mongiana la situazione è anch'essa difficile e nessun accorgimento riesce a
contrastare le acque di piogge eccezionali perché in queste occasioni il
paese diventa un imbuto raccoglitore con unica via di sfogo nella valle dell'Alaro
dove, al suo livello minimo e addossate alle ripide pareti, si trova la parte più
importante degli edifici della ferriera. Piccoli aumenti di livello mettono
in preallarme gli addetti alle chiuse i quali hanno l'obbligo di regolare i
flussi dei canali, di abbassare le saracinesche e sbarrare i corsi. Tali
accorgimenti risultano deboli palliativi se nella valle si raccolgono le piovane
e le sorgive. La storia di Mongiana è costellata di disastri, due di portata
funesta: nel 1850 il primo e, descritto dalle cronache come un vero uragano
“che a memoria d'uomo non si è potuto con altro comparare” (6),
nel 1855 il secondo.
Da
allora è trascorso più di un secolo, ma le cronache si sono dovute occupare
spesso di fenomeni naturali, fatalisticamente “imprevedibili”, che non si
riesce mai a paragonare con nulla di precedente; la memoria sembra incapace di
riesumarli prima di subire la nuova furia degli elementi. La frase del
giornalista napoletano che con stupore impotente riferisce i danni
dell'alluvione del 1855, è un motivo conduttore che sarà sentito poi più di
una volta. Basta andare indietro di poco per ricordare l'ultima
“imparagonabile” alluvione che nella zona ha ancora distrutto quanto a
Fabrizia, Mongiana e Nardodipace si era a fatica costruito sulle rovine della
precedente. All'indomani dell'inondazione si è ventilata l'ipotesi di
trasferire in blocco alcuni paesi; il progetto è rifluito insieme alle acque e
ora per la difesa idrogeologica e per evitare un'altra prova dolorosa non
restano che i meridionalissimi scongiuri. La Calabria, per la frequenza dei terremoti,
s'è guadagnata il poco allegro soprannome di “terra ballerina”; a volte
qualcuno, ignaro di ciò, storce il naso per l'aspetto piatto delle cittadine
calabresi dovuto alle “leggi antisismiche” varate già all'epoca
dell'istituzione della Cassa Sacra per il terremoto del 1783. Ma in Calabria
regna anche una grande precarietà dovuta all'incuria nel rimediare al
dissesto idrogeologico. A torto la regione ha guadagnato la stereotipa immagine
di terra arida e assetata; ciò potrebbe essere avvalorato dalla penuria d'acqua
che affligge a tutt'oggi molti centri costieri, ma smentito dall'abbondanza
delle acque sorgive in quota che se bene utilizzate, potrebbero affrancare le
popolazioni, dare sostegno all'agricoltura e alle attività turistiche.
A
paragone con l'alluvione di cinque anni prima, quella del 1855 fu una vera
calamità. Nel 1850 i danni erano stati contenuti al crollo della vecchia
Armeria e alla distruzione.di parte delle coperture della Fonderia. Cinque
anni dopo tutto il paese subì serissimi danni ad eccezione della Fabbrica
d'Armi che con le nuove mura di cinta oppose valida resistenza al Ninfo e limitò
i danni a poca cosa. Molto più seri invece alla Fonderia, alle officine lungo
l'Alaro e in paese. Crollò parte della Fonderia, le mura prossime al nuovo
altoforno S.Ferdinando e quelle parallele al corso del fiume. Per questa via
l'acqua invase il piano di fabbrica trasportando materiali e lasciando
dappertutto una spessa coltre di sabbie. La piena dell'Alaro sfondò le porte
dei depositi di carbone e minerale che, trascinati dalle acque, s'abbatterono
sulle restanti mura rovinandole. Ancora più gravi i danni patiti dalla vecchia
Armeria che, già mutila dalla precedente alluvione e declassata a deposito,
fu inghiottita dalle acque. Furono divelti i selciati di tutte le strade;
rovinato da tronchi e macigni trascinati dalla corrente il ponte della
Raffineria S.Brunello, crollate le mura della stessa, danneggiati i forni alla
Wilkinson, distrutte le ruote e le trombe, dispersa ogni staffa per modelli,
intasate le prese e crollate le sponde dei canali. Le più colpite furono le
svariate Officine e in particolare la Robinson letteralmente spazzata via con il
laminatoio (in seguito recuperato).
Due
alluvioni, una più funesta dell'altra, a pochi anni l'una dall'altra, fecero
comprendere l'assurdità della dislocazione di alcuni dei tanti corpi separati
della ferriera. Su proposta del Direttore Pacifici, le officine più importanti
e il meglio dei macchinari furono riuniti nella grande Fonderia alla quale
Savino diede nuovo volto. Nonostante i danni, i lutti e le due ricostruzioni, è davvero inspiegabile come in quegli anni la ferriera abbia dato il meglio di sé raggiungendo i suoi più alti livelli produttivi. |
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