Le Reali Ferriere      

ed Officine di  Mongiana

 

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Prefazione

Introduzione

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Tavola Misure Regno delle Due Sicilie

Indice Appendice

Real Decreto e Regolamento

Bibliografia

Bibliografia generale

Indice delle abbreviazioni

Indice delle note

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Prefazione

Qualcuno, anni fa, parlò di un “ritorno dell'acciaio in Calabria”. L'affermazione sorprese perché gli stessi Calabresi avevano perduto il ricordo storico di questa tessera del loro sistema produttivo pre-unitario. La vecchia generazione ricorda bensì la fiorente industria della seta, ma pochi, e soltanto nell'area interessata, le miniere e le fonderie di ferro. E la novità recò tanto più meraviglia per il fatto che non si richiamavano memorie di antichissime ferriere, quali erano frequenti in secoli di produzione disseminata e artigianale, ma miniere e altiforni, cioè un sistema di fabbrica e una produzione specializzata.

Quel richiamo, giornalisticamente efficace, era invero fuori misura se posto a raffronto con la rivoluzione tecnologica dei tempi nostri e con la conseguente domanda di produzioni sofisticate. Ma poneva un problema storico e spingeva a riflettere sull'eclissi, dopo l'unificazione nazionale, di un apparato produttivo calabrese, né ampio né sano, e tuttavia per quei tempi notevole e incidente. Suonava, da un lato, come un lamento e, dall'altro, come una sfida. E ciò valeva soprattutto come rivendicazione di attitudini tecniche e di fattori socialmente aggreganti spesso negati dagli odierni “viaggiatori”.

 

Discorrendo di Gioia Tauro, si richiamava Mongiana e il complesso di attività intercorrenti tra il suo stabilimento metallurgico e l'area circostante, dal cuore dell'aspra mon­tagna appenninica ai centri vicini (Serra, Pazzano, Stilo, Bi­vongi) e agli approdi jonici e tirrenici (Squillace, Monaste­race, Siderno, Pizzo e Nicotera). Mongiana!  Un paese ora spopolato, un tempo luogo fervido di molteplici attività. Nemmeno allora la condizione dell'uomo era lieta e senza drammi. La fatica era dura, i fattori ambientali pesavano su tecnici, maestranze, minuscoli operatori che dalla ferriera traevano lavoro e sostentamento. Ma la vita, che del resto era molto dura altrove, anche fuori dalla Calabria e dal Re­gno borbonico, pulsava in molte direzioni, sicché dalla fer­riera si irradiavano stimoli economici, sociali e tecnici e, com'era naturale, impulsi politici e culturali. Lo “statino” degli addetti alla ferriera nel marzo del 1861 dà 762 unità: 250 “carbonieri”, 90 "minatori", 100 "armieri", 110 "mulat­tieri" e "bovari"; e con essi tecnici e operai specializzati, dai “capi officina” ai “macchinisti” ai “forgiari” ai “limatori” agli “accieri” ai “fornaceri” agli “staffatori” ai “ribat­titori” ai “raffinatori” ai “magliettieri”: un'occupazione di buona dimensione per quei tempi e talora di ottima capa­cità tecnica alla quale deve sommarsi lo stuolo di artigiani, di piccoli commercianti, di manovali generici che vi era col­legato nei mesi di più forte produzione.

 

Le fonti dicono che la miseria imperversava, che le categorie più numerose e meno qualificate protestavano ripetutamen­te per i bassi salari e per le dure condizioni di lavoro, e che lo scontento attingeva impiegati e tecnici. Non ci sono ra­gioni per dubitarne, e certo lo sfruttamento era grande. Ma tutto ciò deve essere rapportato ai tempi e alla condizione operaia prevalente in industrie dello stesso tipo operanti anche fuori del Mezzogiorno. E in ogni caso, non deve es­sere sottaciuto il fatto che, nel cuore dell'appennino ca­labrese, funzionava la più importante industria metallurgica borbonica, e per di più legata a materie prime locali. E che fosse statale, come quella meccanica, più robusta, di Pie­trarsa, è certo un fattore da considerare ove se ne intendano esaminare i costi e la produttività; e in questo caso si dovrà comunque inserirla nel complesso sistema economico bor­bonico e, in particolare, nel cosiddetto “protezionismo fer­riero”. Da questo lato tuttavia l'analisi è tutt'altro che age­vole e nessuno ha finora tentato di intraprenderla, così co­me ha fatto Giorgio Mori nel suo splendido lavoro sull'in­dustria del ferro in Toscana (1).

 

Ma quando, perché e come nacque lo stabilimento di Mon­giana?

E la domanda principale, cui fa seguito, contestualmente, l'altra: quando, perché, come morì un'industria di quella di­mensione? Una tradizione “ferriera” esisteva anche in Calabria e se ne parla in memorie antiche come di attività precedenti alla venuta dei Saraceni. Tommaso Campanella ricorda uno stabilimento della sua Stilo, e il suo riferimento, e i molti altri che si ricavano da descrizioni, memorie e documenti di archivio, confermano che il territorio attorno a Stilo costituiva la più ricca zona mineraria del Regno di Napoli e che in esso furono attive, in secoli diversi, numerose ferriere. Si può ricordare, ad esempio, che alcune di esse (a Stilo e in zone non distanti, come Spadola) furono cedute da Carlo V a Cesare Fieramosca; che, nei primi due decenni del '600, esse avevano aumentato la produzione rispetto al secolo precedente, toccando i 1200 quintali nel 1618 con lavorazione di ferramenti per la marina e ferri speciali per usi civili; e che, nei primi decenni del '700, nel periodo austriaco, quel governo imperiale mostrò molto impegno alla loro ripresa (2).

 

Queste ferriere non ebbero tutte una continuità produttiva. A metà '700 si ebbe un primo spostamento in zone più vicine alla città, nel cuore del bosco demaniale e la costruzione di una nuova ferriera lungo il corso del fiume Assi; sicché il precedente gruppo fu chiamato le “Ferriere Vecchie”, le quali corrispondono al complesso della Ferdinandea costi­tuito dopo quello di Mongiana. Tali spostamenti possono essere spiegati soprattutto con la progressiva riduzione del­l'area boschiva, attesa la grande quantità di combustibile richiesto dalla tipologia produttiva; e fu, in sostanza, per questo motivo che il loro amministratore, Massimiliano Conty, propose al governo il progetto di una nuova ferriera (3). La località prescelta era detta, appunto, Mongiana, posta nel cuore della montagna, a 5 miglia da Serra S. Bruno, in mezzo alla selva di proprietà del principe di Roccella, feu­datario di Fabrizia.

Nasceva così un vero e proprio “distretto siderurgico” Ca­labrese, comprendente Mongiana e Ferdinandea; e nel set­tore privato, la ferriera di Razzona (Cardinale) costruita dai Filangieri col metodo “alla catalana” e capace, secondo il Grimaldi, di una produzione di circa 2.500 cantaia l'anno (4).

Oltre che sui boschi e i molti corsi d'acqua, quel sistema metallurgico statale si fondava sui minerali di ferro della miniera di Pazzano. Rispetto alle ferriere antiche, tutte ubicate a poca distanza da questa miniera, il processo di con­centrazione si attuava in località più lontane, il che, mentre aumentava la disponibilità delle risorse carbonifere e faci­litava il trasporto dei prodotti sulla via carrettiera che, lungo l'Angitola, portava a Pizzo, rendeva più arduo il rifornimento dei minerali da Pazzano alla Ferdinandea e a Mongiana, distanti rispettivamente 18 e 29 chilometri da percorrere su strade appena abbozzate. Benché sfruttata con procedimen­ti poco evoluti, quella miniera impegnava mediamente 140 unità, tra adulti e bambini; e in certi anni, come tra il 1803 e i1 1854, si estraevano 14.000 quintali di minerali a servizio di un solo altoforno attivo 5-6 mesi l'anno o, come dopo il 1854, 50.000 quintali annui per l'alimentazione di 3 altoforni (5).

 

Il complesso di Ferdinandea comprendeva un altiforno attivato, edifici per alloggio, magazzini, officine, la segheria, la chiesa. Beneficiava, come si è detto, della vicinanza alla miniera di Pazzano, ma incontrava difficoltà nella quantità e nell'uso delle risorse idriche. La potenza idraulica, molto alta nell'inverno, si abbassava drasticamente in estate, sic­ché nei mesi di maggiore siccità si riusciva ad attivare un solo fuoco di affinazione. Mongiana, a parte la distanza da Pazzano, fruiva di migliore opportunità ed era cresciuto via via fino a qualificarsi come un centro metallurgico comple­to. All'altoforno S. Barbara si erano aggiunti a metà Ottocento il S. Ferdinando e il S. Francesco, costruiti sul tipo di Thomas e Laurent; e su un fronte di due chilometri e mezzo, lungo il corso dei fiumi Ninfo ed Alaro, erano ubicate le varie officine.

La struttura di quel polo siderurgico è descritta in varie memorie della prima metà dell'800 sebbene con giudizi diversi sulla sua capacità produttiva. Luigi Grimaldi ne offre una sommaria idea nei già ricordati “Studi statistici”. Più recentemente documenti importanti sono stati utilizzati dal Caldora e dal Petrocchi, rispettivamente per il decennio na­poleonico e per l'ultimo periodo borbonico. Riunendo varie notizie, il Petrocchi così riassume lo stato dello stabilimen­to di Mongiana dal 1848 al 1859. Mongiana contava “due altiforni per la produzione della ghisa, sei raffinerie, due fornelli Wilkinson ed altre officine minori. Era diretto da un tenente colonnello di artiglieria, assistito da un consiglio di amministrazione composto di ufficiali della medesima arma. Oltre agli ufficiali e agli impiegati dello Stato, occupava 280 carbonieri, 100 mulattieri e 100 artefici e manuali. Dal 25 novembre a tutto marzo era in attività un solo altoforno che produceva 40 cantaia di ghisa al giorno cioè 5000 cantaia per tutto il periodo di lavoro; si ottenevano inoltre 2.700 cantaia di ferro. I materiali venivano impiegati per gli usi della guerra e marina... si forn[ivano] pezzi per ferrovia... si costruivano, tra l'altro, “metraglie” di ferro fuso, ferro ma­glio, ghisa in lingotti, lastre per moschettoni, palle e bombe” (6). La Mongiana dunque, continuando una lunga tradizione e utilizzando materie prime ed esperienze locali, rispondeva ad esigenze del governo specie per le produzioni dell'esercito e nasceva in una fase politica riformista fondata sull'inter­vento statale. Negli ultimi due decenni del '700 e nei primi dell'800 gli interventi del governo si susseguirono sia nel settore più propriamente amministrativo e di gestione (e in questo senso si pose già allora il problema della direzione militare), sia nel settore tecnico (7).

 

Lo sviluppo regolare degli impianti e delle varie fasi di la­vorazione incontrava forti ostacoli. Esso richiedeva cospicui investimenti e un'amministrazione oculata; viceversa, i vari documenti che si conoscono mostrano che difettavano gli uni e l'altra e che i progressi si limitavano a correzioni marginali. Gli amministratori, a parte le loro stesse capacità personali, trovavano forti difficoltà anche nel reclutamento delle maestranze: i bassi salari e le condizioni di lavoro durissime e altamente nocive, così nella miniera come nelle fasi di fusione, non incoraggiavano l'offerta e ponevano seri problemi al mantenimento del ciclo produttivo. Parlando ap­punto delle condizioni di lavoro degli addetti alla fusione, così scriveva il Galanti alla fine del '700: “alla Mongiana, presso la Serra sono le fucine per purgare il ferro, che si cava nelle vicinanze di Stilo. Le persone che sono impiegate in queste fucine ordinariamente non oltrepassano i 40 anni della loro vita, o perdono gli occhi” (8).

 

Un notevole miglioramento si registrò invece nel “decennio napoleonico”. Le condizioni politico-militari di quell'epoca, tali da spingere la domanda, e il generale miglioramento del modello amministrativo introdotto dal potere francese e dal­la classe dirigente ad esso legato, impressero alla Mongiana novità importanti. La direzione fu assunta dal Ministero di Guerra e Marina, tagliando almeno il nodo dei ricorrenti ed aspri contrasti tra civili e militari napoletani, e si diede ma­no a innovazioni tecnico-produttive e a misure di sostegno della condizione operaia. Su questo ultimo aspetto, così scrive il Caldora: “Gli amministratori napoleonici... giunse­ro ad un adeguamento delle paghe, ottennero per gli operai un medico, un farmacista, un giudice di pace, l'esenzione della leva militare e pensarono persino di istituire una Cassa degli Operai, con la trattenuta di un grano a ducato, per l'assistenza agli invalidi, ai vecchi, alle vedove, agli orfani e per i maritaggi” (9). La produzione aumentò progressivamente:

dalle 3.297 cantaia del 1808 si giunse alle 10.065 cantaia del 1812, cosi divise: 3.885 cantaia di “proiettili pieni e vuoti”; 3.900 “cantaia di pani di zavorra”; 152 cantaia di “utensili per uso dello stabilimento”; 1.091 cantaia di “ghisa”; 1.035 cantaia di “granaglia” (10). Il preventivo della produzione per il 1814 era ancora più alto: ghisa cantaia 16.000; ferro battuto 3.000; mitraglia di ferro battuto 1.000; aste diverse a pa­lanchetti 100; piombo 700; proiettili pieni 5.333; proiettili vuo­ti 5.333; granaglia 1.334 (11). Non si tratta di un consuntivo, e si sa che quei livelli non furono raggiunti. Ma é indubbio che, già in quella fase, erano stati posti i fattori essenziali del passaggio da una tipologia produttiva più o meno arcaica a quella propriamente industriale. Questo non significava di per sé che la Mongiana avesse i caratteri di un complesso siderurgico autonomo, capace, in diverse condizioni politi­che, di lavorare per un mercato più ampio. Mostrava però che era possibile una conduzione valida anche sul terreno della professionalità delle maestranze, e una sua colloca­zione non parassitaria nell'economia meridionale, priva, com'è noto, di altre valide alternative interne in quel com­parto.

 

La fine della decennale parentesi murattiana e il lungo pe­riodo d'inerzia seguito alla restaurazione borbonica, durato almeno fino al 1830, crearono tuttavia una profonda stasi, solo episodicamente interrotta da isolati tentativi innovativi (ad esempio, la costruzione di una grande fabbrica “per tirare ferri e lamine tra cilindri”) (12). E se, da un lato, l'avvento di Ferdinando II e l'inizio di una fase dominata dalI'“indu­strialismo nazionale” segnò una ripresa anche per Mongia­na, dall'altro lato la linea generale protezionistica, che su­bordinava lo stabilimento alla produzione militare, impose vincoli fortemente negativi rispetto al mercato e ne soffocò, in sostanza, le potenzialità effettive.

Nei trenta anni precedenti l'unificazione le attenzioni per il complesso siderurgico calabrese non mancarono. Furono bensì episodici, ma tra quegli interventi ve ne erano di conducenti allo scopo. Ad esempio, la costruzione del tratto di strada Angitola-Serra S. Bruno, completato nel 1849 e del tratto successivo da Serra a Pazzano, ordinato nel '52, in modo da poter fruire di un'indispensabile infrastruttura in­terna, tra la miniera e lo stabilimento, e esterna, fino a Pizzo, per il più rapido trasporto dei prodotti. E ancora la costruzione di due nuove ferriere, in una delle quali furono inserite i due fornelli “alla Wilkinson”, l'ampliamento delle fonderie e l'introduzione di una moderna macchina a vapore di 50 HP importata dall'Inghilterra. Sul piano della poten­zialità produttiva, alla vigilia dell'unificazione, il complesso comprendente ormai tre altiforni, capaci di una produzione globale giornaliera di 120 cantaia, avrebbe potuto dare 24.000 cantaia di ghisa all'anno, coprire cioè una quota ri­levante del consumo interno. Ma la sua amministrazione e organizzazione e, ancora più, la sua collocazione nel siste­ma borbonico, lo tenevano molto lontano da quei traguardi; e perciò si presentava come un polo deficitario o comunque strettamente dipendente dalle commesse statali (13). 

 

Non è qui il luogo per riconsiderare la politica economica borbonica e, nel contesto, la dura polemica tra liberisti e protezionisti che ne accompagnò lo sviluppo per molti de­cenni preunificazione. Si deve soltanto ricordare che il pro­blema del ferro e del protezionismo che vincolava il settore fu al centro di quel dibattito, in un periodo in cui questi prodotti potevano essere importati in grandi quantità e di buona e ottima qualità (come di fatti avveniva, malgrado l'alta tariffa) (14) .  Mongiana occupava un buon posto in quelle discussioni perché si trattava di industria statale e i liberisti ne contestavano l'efficienza e la validità economica rispetto sia agli impegni finanziari dello Stato sia ai forti danni im­posti al consumatore. Esisteva tuttavia un parallelo interes­se dei produttori privati garantiti dalla tariffa protezionistica e tra essi, in primo luogo, il principe di Satriano, Filangieri, proprietario della ferriera calabrese di Cardinale (15).

In quel contrasto, relativamente alla Mongiana, si discusse anche della qualità del prodotto, per taluni molto scadente, per altri di alto livello. Facendo la necessaria tara ai giudizi, si può dire che i prodotti di Mongiana, non tutti portati al possibile sviluppo e perfezionamento, erano mediamente buoni e che, comunque, non stava in quel punto il pomo della discordia. I pareri ufficiali, espressi da uomini come Cagnazzi, Durini e Cantarelli erano ovviamente più lusin­ghieri. In una relazione dell'istituto d'incoraggiamento si legge che “la ghisa di prima fusione è di tal pregio da non temere il confronto con quella di Bofort, quanto il ferro malleabile tirato a trafila, di diversa dimensione, tondo e rettangolare, e di cui se n'é veduta ed accuratamente osservata la spezzatura a freddo; il quale è di ottima qualità: e medesimamente dovete dire delle banderelle e lamine stagnate a foglie. Inoltre si voglion bellissimi i saggi dell'ac­ciaio di cementazione, che nulla lasciano a desiderare (16). È probabile che tali giudizi siano tratti da analoghe informa­zioni provenienti dai responsabili politici ed economici ca­tanzaresi, i quali a loro volta lavoravano su dati offerti dai dirigenti dello stabilimento. Ma in questa materia, allora co­me oggi, occorre molta cautela. Se vanno dunque lette cri­ticamente tutte queste relazioni ufficiali, lo stesso metro è bene usare nei confronti dei polemisti come il Rotondo e anche delle relazioni tecniche di compagnie straniere, for­temente interessate al mercato napoletano per i loro pro­dotti.

 

L'altro tema discusso riguardava i costi di produzione che erano certo alti, anche in dipendenza del tipo di localiz­zazione e di amministrazione. Nel periodo dopo il 1815 fino al 1860 si scaricò sullo stabilimento la doppia forbice delle scelte del potere centrale: se, per un verso, il governo lo tenne in piedi per le sue finalità (e anche per considerazioni politico-sociali), per l'altro non ne fece che un'appendice, specie dopo la costruzione delle officine di Pietrarsa, per la parte relativa alla lavorazione del ferro. Tutto ciò aggravò, anziché correggere, i difetti gestionali, pur se, come si è detto, nell'ultimo venticinquennio borbonico si pervenne a taluni interventi di sostegno infrastrutturale e di ammoder­namento tecnico. Così, all'indomani dell'Unità, la differenza del prezzo per quintale tra la ghisa da “affinare” di Toscana (11,50) e di Lombardia (10-12) e la corrispondente di Mon­giana (17,50) era rimarchevole (quello della Ferdinandea era più basso - 14 -, se non proprio competitivo) (17).

 

Ora, alla luce di questa situazione di fatto e in riferimento alle condizioni nuove, nazionali, prodotte dall'unificazione, trova una facile spiegazione la rapidissima fine della Mon­giana. La nuova politica economica liberista, la decisione, nel suo ambito, di alienare l'apparato industriale pubblico, le specifiche condizioni dello stabilimento calabrese sul ter­reno anche ubicazionale: queste ed altre considerazioni con­ducono alla giustificazione logica di un processo inarresta­bile, il quale, peraltro, aveva in sé le cause stesse della sua negativa conclusione (18). Forse la questione è più complessa, comunque meno lineare. Il dato di fatto più stringente, in questa sede, è il modo stesso della decapitazione, in realtà, si potrebbe dire, sommaria. Trascorrerà un quindicennio dal­l'epopea unitaria alla fine del capitolo siderurgico calabrese con la vendita dello stabilimento all'ex deputato garibaldino Achille Fazzari (gli ultimi prodotti, 400.000 Kg. di ghisa in pani e in rottami, erano stati venduti alla “Perseveranza” di Piombino nel 1872) (19). Ma la morte era cominciata appunto all'indomani dell'Unità. Un sistema protetto, che era nato ed era vissuto all'ombra dello Stato, non poteva reggere la lotta di mercato. Perciò, già nei primissimi anni unitari, senza o con pochissime commesse, la produzione crollò alla media annua di 560 quintali. L'impatto fu dunque durissimo, al limite della “ferocia”. Un capitale tecnico di esperienze fu cancellato di colpo, sebbene sia rimasto per molto tempo ancora l'abilità professionale dei “Serresi”; e si innescò un meccanismo conflittuale tra le povere maestranze, la popo­lazione della zona e il potere centrale tanto aspro da pro­durre, tra l'altro, il ferimento di un direttore più risoluto, inviato dal governo per chiudere la partita (20). Certo, non man­carono tentativi di soluzione diversa (ad esempio progettan­do di affidare lo stabilimento - ormai restituito alla com­petenza del Ministero delle Finanze - a privati che non comparivano perché non esistevano imprenditori disponibili ad affrontare il rischio della ristrutturazione in quelle con­dizioni di mercato e di domanda locale e, nel caso in cui qualche progetto fu avanzato, si trattava probabilmente di fatti puramente speculativi). Oppure progettando piani diver­si, fondati sulla prosecuzione dell'intervento statale. Ma i primi urtavano contro l'obiettivo ostacolo delle nuove con­dizioni di mercato e i secondi contro la linea economica governativa. Peraltro tutte le carte parlano di una linea mol­to rigida e soprattutto dell'assoluta assenza di una qualun­que ipotesi di riassetto e comunque di riconversione del patrimonio, in mezzi e uomini, accumulati in quasi un secolo di attività e di esperienza.

 

Posto dunque sulla scala grande del nuovo Stato, così come si veniva articolando, il problema presentava forti vincoli negativi per una soluzione di mantenimento ed ammoder­namento. Lo stesso problema, collocato su una scala re­gionale, tuttavia parimenti legittima, assumeva ben altro si­gnificato. Nel conto, beninteso, si deve porre la tradizione storica negativa, ma anche il comportamento né limpido né socialmente attento del nuovo potere centrale. Del resto, anche altre iniziative industriali meridionali, ben più sane e più solide, se pure scamparono al primo grosso nodo dell'Unità raggiunta, talora perirono nei posteriori nodi di un mercato via via più nazionale e più stringente.

Il caso della Mongiana è, tra tutti, il più emblematico. Esso illumina le debolezze interne dell'industria borbonica e, nel contempo, senza con questo ridiscutere il giudizio storico complessivamente positivo sul fatto dell'unificazione, ricorda comunque l'alto prezzo pagato da comunità che, pur coinvolte in un sistema politico chiuso, avevano espresso, tra l'altro, buone capacità sul terreno appunto del lavoro industriale.

Gaetano Cingari

 

Hanno collaborato ai grafici

 

Michele Apicella

Domenico Cafiero de Raho

Fernando Pisacane

 

 

 

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