Le Reali Ferriere      

ed Officine di  Mongiana

 

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Prefazione

Introduzione

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Tavola Misure Regno delle Due Sicilie

Indice Appendice

Real Decreto e Regolamento

Bibliografia

Bibliografia generale

Indice delle abbreviazioni

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Introduzione

Il desiderio di approfondire l'episodio “Mongiana” è scaturito dalla occasione offertaci dal Comune di Mongiana nel 1974, con l'incarico di restauro della “Fabbrica d'Armi”. Col tempo, è ma­turata in noi una presa di coscienza per problematiche molto più complesse delle disciplinari inerenti il restauro scientifico del complesso monumentale.

Ci si è resi via via conto di quanto lontana fosse oggi la memoria di quello episodio persino tra gli stessi mongianesi, ignari del fatto che il degrado economico attuale altro non è se non il prodotto antico della interruzione forzata dell'attività metallurgica che quasi due secoli prima aveva generato il paese.

La perdita d'identità, e quindi di storia, è oggi totale in una popolazione, tra le prime in epoca industriale, costretta all'emi­grazione. In una simile situazione sociale, abbiamo ritenuto di dover utilizzare l'occasione del restauro della Fabbrica d'Armi come strumento di stimolo per gli abitanti del paese e per quanti si occupano di problemi del Mezzogiorno d'Italia. Il libro su Mon­giana è nato e si è sviluppato con la convinzione sempre più certa che fosse doveroso rimuovere dall'oblìo una pagina così impor­tante della storia del lavoro meridionale.

Durante la stesura del testo ci siamo continuamente rammaricati di non potere e sapere far rivivere personaggi ed eventi, di cui recuperavamo le labili tracce, come in un affresco epico di un momento affascinante perché pionieristico. Per poter avvalorare appieno la veridicità della materia esposta, ci siamo invece at­tenuti ad uno schema tradizionale, scientifico, doverosamente confortato - ed appesantito - da note ed appendici.

 

Chi ha interesse a sostenere l'immagine del meridionale “lava­tivo”, o ad avvalorare le tesi sulla “napoletanità” basate su una “vocazione” canzonettistico-cinico-eduardiana del popolo napole­tano e meridionale in genere, è smentito, ancora una volta, dalla storia di Mongiana. I napoletani “cantano” - storicamente - per consolarsi, nei periodi di riflusso e di emarginazione, quando non hanno lavoro e quando emigrano; e ciò è avvenuto, puntualmen­te, ogni qual volta essi hanno servito interessi altrui.

In quelle situazioni in cui a loro è stata data l'occasione di pro­durre, hanno offerto di sé un'altra immagine, di efficienza e inventiva.

 

Più in generale, questo tipo di ricerche che si occupa della ri­scoperta delle prime fasi dell'industrialesimo rientra in quella “disciplina” recente, non ancora del tutto codificata, che è l'ar­cheologia industriale, nata in Inghilterra, paese conservatore per eccellenza, dove si sono protette molte testimonianze pionieri­stiche legate ai cicli di produzione derivate dall'uso della mac­china. Già da alcuni decenni il Council for British Archaeology si preoccupa di rilevare, studiare, catalogare ed eventualmente re­staurare questo speciale patrimonio di fabbriche e macchine. In altre regioni d'Europa la salvaguardia di queste testimonianze è stata a lungo compromessa da una carenza di sensibilità nei confronti del femomeno industriale ai suoi albori.

Salvo casi di insediamenti industriali autoconservati, perché fos­silizzati in quanto abbandonati da molti decenni, in regioni lon­tane da traffici e da poli di sviluppo, ogni traccia è andata ir­rimediabilmente perduta con velocità maggiore di quella occorsa a cancellare le testimonianze di civiltà archeologiche tradizionali. Là dove vi è stata continuità produttiva, i vecchi edifici hanno subìto impotenti l'assalto della ruspa che ha aperto la via alla realizzazione di nuove e più funzionali fabbriche, soprattutto in quelle aree dove lo sviluppo primitivo non ha subìto il trauma dì un'improvvisa caduta che spesso ne ha determinato, col tempo, anche la scomparsa fisica del territorio.

 

In Italia, solo da pochi anni è di “attualità” ricercare in questo ambito. Un campo d'indagine trascurato troppo a lungo si apre ora vergine al ricercatore promettendogli emozioni che l'altra ar­cheologia, la classica, riesce a far assaporare con sempre mag­giore difficoltà. Eppure “scoprire” quanto dista dall'oggi appena alcuni decenni può apparire inspiegabile: ciò che si scopre in realtà è già conosciuto, nè va riportato alla luce con scavi incerti.

Ci si può persino illudere di essere divenuti piccoli Evans alla scoperta di inesplorate “tombe” industriali mentre ci si aggira ammirati ed increduli tra ciminiere dirute, ruote idrauliche, presse, grandiosi ingranaggi dal disegno antropomorfo, in fabbriche or­mai spettralmente silenti.

Questi primi duecento anni di industrialesimo, nella esaltazione della logica del profitto, hanno incessantemente divorato il pro­prio passato recente, senza mai concedersi il tempo per una pausa di riflessione. La stessa era industriale, fiera di sé, so­prattutto ai suoi inizi, ha ripetutamente sbandierato la propria presunta superiorità su ogni altra era, finendo relegata in una zona di oblìo storico, al di fuori di ogni continuità con il passato, proiettata verso visioni utopiche del futuro.

 

Se oggi vi è riflessione, essa non nasce da un ruolo nuovo del­l'industria che continua a fornire essenzialmente beni di consu­mo all'interno di un sistema di profitti, nè tanto meno deriva da un interesse improvviso quanto romanticheggiante verso momen­ti “spontanei” della storia, non ancora “contaminati” dall'uffi­cialità della cultura, così come è avvenuto per il “recupero” della tradizione popolare e folklorica.

La riflessione sulla nascita dell'industria si impone oggi come una necessità: essa serve a dare risposte alla crisi del macchi­nismo e dell'industrialesimo di rapina. Essa poi diviene una esi­genza politica nel momento in cui, cadute le illusioni del boom economico accarezzate fino alla metà degli anni '60, ci si trova impreparati a fronteggiare la recessione, la crisi produttiva, la guerra energetica, soprattutto in Italia, paese di trasformazione, dove maggiore dovrebbe essere l'attenzione verso le risorse pro­duttive.

E non è un caso che la terra di conquista dell'archeologia in­dustriale italiana sia il Sud. È quì che si giocherà gran parte del futuro sviluppo dell'Italia, sempreché si riesca a riscattare la gen­te del Mezzogiorno con il reinserirla in quella economia di tipo avanzato - comunque certamente non retrogrado - che essa ha avuto in epoche nemmeno tanto lontane dall'oggi.

 

Il Sud è un'area particolarmente adatta al confronto tra passato e futuro industriale: esso conserva notevoli testimonianze archeo­logiche della industria. Il Nord ha perso la quasi totalità del pro­prio patrimonio pionieristico: esso ha infatti conosciuto quella continuità produttiva che gli ha permesso un tenore di vita così diverso da quello meridionale.

Il Sud fu decapitato senza eccessivi ripensamenti nel giro di po­chi anni: dopo l'Unità, l'importante patrimonio industriale del Re­gno delle Due Sicilie - sminuito a torto - andò distrutto, e per la nuova nazione ciò ha poi rappresentato un danno irreversibile. Gli sforzi dei Borboni volti ad edificare un tessuto industriale forte e capace di reggere il confronto con i sistemi liberali più spinti, fu vanificato da una politica unitaria ingorda e di parte, che incentrò il suo obiettivo nella repentina privatizzazione dell'industria per ottenere profitti massimi in tempo minore, con la conseguenza che si perse ogni cautela nello sfruttamento delle risorse e si relegò il Sud a evocazione agricola.

Le Ferriere ed Officine di Mongiana - episodio fino a pochi anni addietro noto solo a pochi studiosi di cose calabresi - testi­moniano un'altra esaltante impresa industriale del Sud, che si affianca alle ormai note San Leucio, Torre Annunziata, Castel­lamare di Stabia, Pietrarsa, ed a tante altre della Campania, Ca­labria, Sicilia e Puglia.

 

Il nostro lavoro vuole essere un primo contributo ad una materia che merita certamente approfondimenti ulteriori. In precedenza alcuni studiosi hanno sviluppato ricerche sulla Mongiana, anche se limitate a brevi periodi della sua storia. Base di queste ri­cerche, e della nostra, è stato il carteggio riordinato dal prof. L. Lume, consultato spesso in modo disorganico, fatta eccezione per G. Cingari, che ha trattato della crisi determinatasi nel 1860 con il passaggio degli stabilimenti all'Amministrazione piemontese (1).

Il nostro tentativo è stato quello di fornire un quadro più ampio della Mongiana, dai suoi albori alla sua chiusura, non solo sul piano storico, ma tentando l'analisi di alcuni tra i fattori a nostro avviso fondamentali in una vicenda di questo tipo. Abbiamo cioè cercato di descrivere gli aspetti energetici e tecnologici legati alla produzione, nonché quelli sociali ed architettonici che ne sono derivati. Pur partendo - da architetti - da un'interesse preva­lentemente indirizzato verso le realizzazioni edilizie di questa im­presa industriale, abbiamo ritenuto opportuno posporre la descri­zione e la analisi di questo particolare patrimonio, facendo pre­cedere ad essa una valutazione di quei fattori storici che in de­finitiva l'hanno prodotta. Si è divisa la materia in argomenti mo­nografici tra loro connessi: partendo dall'ambiente e dal proble­ma energetico e delle materie prime, cioè dall'analisi dei boschi (carbone) ed acque (forza motrice) e delle miniere (ferro ed altri minerali). Si è affrontato poi l'aspetto inerente le trasformazioni subìte dall'ambiente, quello connesso alla viabilità indotta dal complesso siderurgico, e infine le tecnologie di produzione ed i prodotti, con i problemi relativi alla condizione operaia.

Su queste basi si è affrontata l'architettura, ritenendola solo uno dei punti d'arrivo - prodotto anch'essa - dell'intero processo produttivo. In tal senso ci pare corretta la posizione di alcuni teorici dell'archeologia industriale che marxianamente tendono a vedere il monumento industriale come qualcosa che ha prodotto, quale componente attiva della struttura economica, ma che, al tempo stesso, è il prodotto di un'ideologia che ne ha determinato le valenze architettoniche (2).

 

 

 

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